Una singolare sepoltura

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La “dama di ghiaccio” è una ragazza di nemmeno trent’anni, racchiusa all’interno di un sarcofago in tronco di larice decorato con cervi e leopardi delle nevi intagliati nelle pelli di cervo, la cui sepoltura è degna di una regina. Indossava un’elegante tunica in lana e aveva con sé un ricco corredo funebre, addirittura sei cavalli, per l’ultimo viaggio che l’avrebbe portata nell’aldilà. Sulla sua pelle sono ancora visibili splendidi tatuaggi di colore blu che raffigurano creature antropomorfe, con le corna che magicamente si trasformano in un intreccio floreale. Insomma, una sepoltura eccezionale, anche perché il corpo imbalsamato si è perfettamente conservato per la formazione di uno spesso strato di ghiaccio formatosi sul fondo della tomba.

Fu l’archeologa Natalia Polosmak a rinvenirla nel 1993 nella piana di Ukok, sui Monti Altai che segnano il confine tra Russia e Cina. La zona, indicata dai locali come il “secondo strato di cielo” perché un gradino sopra le vicende di questo mondo, fu scavata già negli anni Venti del secolo scorso dall’archeologo S.I. Rudenko, che rinvenne una quarantina di tombe risalenti al V secolo a.C. Già all’epoca i sepolcri risultavano saccheggiati, ma all’interno si trovarono almeno tre corpi imbalsamati, interamente coperti da tatuaggi. La datazione di campioni organici provenienti dal cibo di cui si nutrirono i cavalli sacrificati, ha permesso di scoprire che la dama di ghiaccio era vissuta verso la metà del I millennio a.C. e apparteneva alla razza degli Sciti, nomadi delle steppe così chiamati dai Greci.

Gli Sciti erano una popolazione iranica di ceppo indoeuropeo forse proveniente dalla Persia, che Erodoto attesta nella Siberia meridionale fin dal VII secolo a.C. Provenivano quindi dall’Asia centrale e giunsero nella regione del Mar Nero. Non avevano una propria scrittura e quel che si conosce, lo dobbiamo alle cronache, certo non genuine, dei popoli con cui vennero in contatto. I Greci sostenevano che gli Sciti fossero discendenti di Scite, figlio del mitico Eracle, ma altre fonti narrano di una discendenza da Targitao, primo abitante di quella terra, e dai suoi tre fratelli Lipoxai, Arpoxai e Coloxai, ognuno dei quali diede origine a una tribù. Sciti in iranico vuol dire “arcieri” e con queste mansioni erano infatti inglobati nell’esercito persiano.

Gli Sciti serbavano alla donna un ruolo speciale, come dimostrano altre numerose sepolture, solitamente riservate solo ai regnanti, rinvenute nei kurgan. I kurgan erano fosse circolari del diametro di settanta metri sormontate da colline artificiali (tanto da apparire piramidi nella steppa) che, come i corredi funebri, erano proporzionate al potere e alla grandezza dei defunti. I più antichi kurgan risalgono al 3.000 a.C. Monumentali dimore ultraterrene, riservate ai sovrani e alle classi dominanti, al loro interno sono stati rinvenuti ricchi corredi, inequivocabile testimonianza dell’altissimo livello raggiunto dagli Sciti nell’arte orafa (in una regione naturalmente ricca di preziosi minerali), perlomeno fino all’assimilazione forzata con i Goti nel IV secolo d.C.).

Reperti aurei di eccelsa fattura, così come li descrisse Erodoto, sono stati disseppelliti in scavi archeologici intrapresi nel secolo scorso, soprattutto a Ordzonikidze, lungo il corso del Dnepr (allo State Hermitage Museum di San Pietroburgo  è possibile visionare una collezione di questi pregevoli manufatti, tra cui un magnifico specchio dorato, proveniente dal Kuban, con effigiati grifoni, sfingi e divinità alate).

Un popolo che era riuscito a stabilire un equilibrio perfetto con le forze della natura, sovente rappresentate con figure stilizzate e antropomorfe di un magico regno animale. Nei tatuaggi dei defunti ci sono creature fantastiche che si rifanno soprattutto ad asini, capre, arieti, cervi, capricorni, mufloni, giaguari, grifoni e pesci.

È interessante osservare che lo storico romano Pompeo Trogo definiva quella degli Sciti la più antica razza della Terra mentre la ricercatrice Tamara Talbot Rice, nel secolo passato, ricordava che alcuni dei racconti mitici più famosi nascono proprio in Scizia, considerata “La Terra del Sole Nascente” e “Mondo d’Oltremare”: qui Giasone e gli Argonauti erano alla ricerca del Vello d’oro, Ulisse terminava le sue fatiche e il demone Magog partiva per portare devastazione tra gli Ebrei.

Questi cavalieri della steppa facevano risalire le proprie origini a Targitaus, figlio del re del cielo, e alla sua sposa, una dea serpentiforme (secondo la mitologia greca Targitaus fu generato da Zeus e una figlia di Boristene; altre fonti narrano dell’unione di Eracle con il mostro Echidna da cui nacque Scite). Gli Sciti ebbero in dono dal loro dio un aratro d’oro, un giogo, un’ascia e una coppa, tutti simboli del potere: è straordinario costatare che la tribù dei Cherokee, all’altro capo del mondo, tramandano un’identica leggenda. Targitaus sarebbe sepolto a Gerhos (località non ancora individuata dagli archeologi), stando alle parole pronunciate nel 508 a.C. circa dal re scita Idanthyrsus al cospetto dell’invasore Dario I di Persia: un monito per lasciar riposare i padri della patria, unico attaccamento di un popolo senza terra che voleva evitare un’altra battaglia.

Chi era veramente questa ragazza, dal giacchio catapultata ai nostri tempi? Potrebbe anche essere una sacerdotessa o una sciamana al servizio della sua comunità. Sicuramente si trattava di un esemplare di razza caucasica, almeno dai risultati scaturiti dalle analisi sul Dna, ma anche dalle misurazioni del cranio e dalle caratteristiche del viso. Jeanne Smoot, una studentessa al seguito della Polosmak, ha raccontato che alcuni del gruppo, durante gli scavi archeologici in quella zona, erano rimasti vittime d’incubi notturni. La stessa Polosmak, in seguito ai numerosi imprevisti accaduti durante lo spostamento della mummia, aveva avuto la netta sensazione che lo spirito del ghiaccio non ne volesse proprio sapere di andarsene dalla dimora eterna.

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