Andrew Collins in Gods of Eden (2002) e Carl Grant Looney in Climate Change and the Emergence of Civilization (2011), scrivevano del rinvenimento nel sito di Asikli Hoyuk, trent’anni fa circa, di una collana con dieci perle di agata magistralmente perforate per quasi dieci millimetri, databile ad almeno il 7000 a.C.
L’esistenza di questa collana è ancor oggi messa in discussione, adducendo alla mancanza di fonti autorevoli in grado di testimoniarne almeno l’esistenza.
Eppure, per fugare ogni dubbio, sarebbe stato sufficiente per gli scettici reperire un documento in lingua inglese dal titolo “Asikli”, pubblicato nel 1999 dal Neolithic in Turkey Arkeoloji ve Sanat Yay, a firma di Ufuk Esin e Savas Harmankaya della Facoltà di Lettere – sezione Preistoria – dell’Università di Istanbul: in questo studio accademico è infatti pubblicata anche una fotografia in cui, tra i tanti reperti rinvenuti nel sito anatolico, c’è la misteriosa collana, con tanto di didascalia.
Oppure, più semplicemente, consultare Anatolia: centro di molte culture, un bel volume illustrato della Hobby & Work editato nel 1996 (inserito in una collana tradotta dall’originale, in lingua inglese, pubblicata nel 1993 da Time-Life Inc.), in cui si legge fra l’altro che la «collana ricreata con i pezzi di agata lucida ritrovati nella tomba di una donna ad Asikli Hoyuk, rivela un’antica predilezione per i gioielli […] è composta da pietrine provviste di un foro nel mezzo. Otto perline erano intatte, mentre due sono state riparate. La parte attorno ai fori era stata accuratamente rifinita».
Tralasciando il motivo per cui di questo monile nessuno parli volentieri, nella speranza forse che le nebbie del tempo facciano il resto cancellandone infine il ricordo, la scoperta induce a considerare che gli ‘artigiani’ di Asikli Hoyuk avessero raggiunto un livello sorprendente di tecnologia nella lavorazione di questi manufatti.
L’agata è una varietà di quarzo che, per la particolare durezza, si può forare ancor oggi solo con l’utilizzo di un trapano munito di punta conica diamantata. Una semplice punta d’acciaio non riuscirebbe nemmeno a scalfire l’agata, anzi la scheggerebbe.
Una simile tecnologia, addirittura risalente a novemila anni fa, non può essere assolutamente conciliabile con le conoscenze che oggi pensiamo di avere del nostro passato.
Senza dimenticare che una tecnica del genere avrebbe richiesto uno sviluppo lento e graduale di almeno qualche centinaio d’anni.
Anche l’archeologo James Mellaart, il primo a scavare in quelle zone, nel libro Catal Hoyuk A Neolithic Town si dichiarava impotente di fronte all’abilità raggiunta da questi artigiani: «Come facevano, per esempio, a levigare a specchio l’ossidiana, un durissimo vetro vulcanico, senza graffiarla, e come facevano a bucare le perle di pietra (anche di ossidiana) con fori così sottili che neppure i moderni aghi di acciaio riescono a passare? Quando e dove impararono a fondere il rame e il piombo, metalli attestati a Catal Hoyuk fin dal Livello IX, circa il 6400 a.C.?».
Nel frattempo, a questa magnifica collana si è aggiunto un altro stupefacente manufatto: un braccialetto d’ossidiana, rinvenuto nel 1995 e databile allo stesso periodo della collana, che oltre a presentarsi in forma quasi regolare, denota un’incredibile simmetria della cresta anulare centrale e una superficie, simile a uno specchio, accuratamente pulita e rifinita.
Realizzare questo bracciale, ora esposto al Museo Archeologico di Aksaray, richiederebbe oggi una tecnica complessa di lucidatura, ottenibile solamente con l’uso di lenti telescopiche.
Lo sostengono i ricercatori dell’Institut Français d’Etudes Anatoliennes di Istanbul e del Laboratoire de Tribologie et de Dynamiques des Systèmes di Saint-Etienne, (lo studio è stato pubblicato dal Journal of Archaeological Science nel dicembre 2011), che hanno analizzato il reperto con il metodo della tribologica multiscala, tecnica già sviluppata per l’industria automobilistica (per determinare le proprietà meccaniche della carrozzeria) e ora adattata all’archeologia.