La Bibbia derivata

Condividi l'articolo

‘Le mura di Babilonia e il tempio di Bel (o Babele)’, dell’illustratore del XIX secolo William Simpson, influenzato dalle prime ricerche archeologiche (Pubblico dominio)

Il racconto del diluvio, e non solo, fu inserito nel libro del Genesi, con le appropriate modifiche, dopo il periodo di ‘cattività’ che gli Ebrei vissero nel VI secolo a.C. con i Babilonesi (dal 586 al 516 a.C.).

In tale circostanza, stando alle ricerche storiche di numerosi studiosi, i Leviti, una delle dodici tribù di Israele, quella riconducibile al terzo figlio del patriarca Giacobbe, ebbero un ruolo determinante nella stesura di questa parte essenziale della Bibbia.

Myths from Mesopotamia. Creation, the Flood, Gilgamesh and Others del 1998 (Il retaggio della Mesopotamia, 2016) di Stephanie Dalley, già docente di Lingua e cultura assiro-babilonese all’University of Oxford, è un testo che permette di comprendere l’influenza della cultura mesopotamica sull’Antico Testamento ebraico (ma anche sulle epopee della prima epoca greca e sulla raccolta di novelle orientali Le mille e una notte) e certifica le analogie tra testi mesopotamici e brani biblici, spiegabili, secondo l’autrice, sulla scorta delle scuole scribali: «Quando gli ebrei crearono quel prodotto unico e irripetibile della loro cultura che è la Bibbia, nonché le loro caratteristiche istituzioni, essi si basarono sulle venerande tradizioni esportate dai loro vicini d’Oriente, più antichi, più ricchi e più potenti».

Il rinvenimento di tavolette in cuneiforme accadico nei siti archeologici palestinesi di Hazor e Megiddo, conferma questa ipotesi, cioè che gli scribi del posto venivano addestrati sui testi della tradizione mesopotamica; un’influenza culturale avvenuta attraverso i contatti con Ittiti e Hurriti, senza nemmeno bisogno di muovere guerre o imporre politicamente alcunché.

Dalley evidenzia che nella Bibbia, in particolare nel Genesi e nell’Esodo, si possono individuare riferimenti a poemi e storie babilonesi. Parallelismi si ritrovano nella storia del Diluvio, che è raccontata già nell’Epopea di Gilgamesh, il cui nome compare anche nel Libro di Enoch.

I testi giuridici cuneiformi sembra costituiscano la base di altri importanti libri biblici, come il Deuteronomio.

Anche l’archeologo Felip Masò Ferrer è dello stesso parere: «Gli Ebrei, deportati a Babilonia nel 587 a.C., adottarono in quella città (consapevolmente o inconsapevolmente) la mitologia, le narrazioni e gran parte dell’eredità culturale sumera filtrata per secoli da un amalgama semitico, accadico prima e babilonese poi. […] Anche la stessa Bibbia deve molto ai poemi cosmologici sumeri. La comparsa del mondo in un abisso primordiale di acque, la creazione dell’uomo dall’argilla per servire Dio, i castighi a cui è sottoposto, l’esistenza di un “luogo Alto”, residenza degli unici esseri degni di dimorarvi (gli dei) e di un “luogo Basso”, dove avrebbe abitato per sempre l’uomo, o la presenza di demoni a turbare la fragile esistenza umana sono alcuni degli echi sumerici contenuti nella Bibbia che, a partire da essa, sono giunti ai nostri giorni come racconti religiosi, nella cui origine sta la prima impostazione filosofica della storia di cui si abbia testimonianza».

Più recentemente, pure Greenblatt Stephen, che insegna letteratura alla Harvard University, in Ascesa e caduta di Adamo ed Eva (2017) si è espresso in maniera netta: «Nelle scritture compilate dopo il ritorno dall’esilio, i seguaci di Jahvè preferirono non ammettere il debito nei confronti dei miti babilonesi. Al contrario, fecero il possibile per sradicare qualunque cosa avesse anche solo una vaga somiglianza con un ‘abominio’. Questo sradicamento  – un massiccio oblio collettivo – fu in gran parte efficace. Con il passare dei secoli si seppe sempre meno di Babilonia e delle città limitrofe, a parte ciò che si leggeva nella Bibbia. Marduk si ridusse a un idolo generico, uno di quei pezzi di legno o di quelle pietre cui solo uno stolto poteva credere».

Lascia un commento