Una frontiera da spingere sempre più in là

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Alcuni edifici delle tre compagnie minerarie vicino al fiume Solomon, nei pressi di Nome, Alaska (1905, Pubblico dominio)

Il Segretario di Stato William Henry Seward, nonostante i problemi interni connessi alla ricostruzione del Paese dopo la fine della Guerra civile, nel 1867 non si lasciò sfuggire la possibilità di espandere i territori degli Stati Uniti, negoziando l’acquisto dell’Alaska, di cui lo zar Alessandro II voleva disfarsi per fare cassa.

Ci si accordò, infine, per un importo di poco superiore ai sette milioni di dollari, che il Senato si affrettò a ratificare a grande maggioranza, mentre la Camera dei Rappresentanti, con qualche mal di pancia, lo fece solo l’anno successivo: i deputati consideravano la compravendita uno spreco di denaro pubblico.

L’acquisto di quell’immenso territorio, coperto perennemente dai ghiacci e del tutto inospitale, non scaldò per niente l’opinione pubblica, indirizzata in tal senso dall’aperta ostilità dei maggiori quotidiani.

Eppure, lo si sapeva, in quella landa desolata c’erano tantissimi animali da pelliccia, la cui caccia poteva aprire un nuovo e redditizio filone commerciale, come già accaduto duecento anni prima ai confini col Canada, nella regione dei Grandi Laghi.

Per almeno vent’anni, però, l’Alaska rimase un territorio abbandonato a se stesso, con nessuna attrativa per i coloni americani che già imperversavano nell’Ovest.

Dal 1893, in seguito alla crisi che attanagliò l’economia americana, quel lembo di terra rappresentò l’unica via d’uscita per risollevare le sorti di migliaia di avventurieri, anche perché si sparse la voce che in Alaska erano stati rinvenuti immensi giacimenti auriferi nei letti di un paio di fiumi.

La corsa all’oro divenne febbrile e in breve sorsero numerosi villaggi, come quello di Klandike, sulle rive dell’omonimo fiume, meta di un’impressionante immigrazione da ogni parte del mondo: le concessioni minerarie andarono letteralmente a ruba.

Quel periodo di irrefrenabile irrazionalità è stato romanzato non solo dal cinema, per esempio con il celebre film di Charlie Chaplin, ma anche dalla letteratura, con i libri di Jack London e i fumetti che vedono protagonista, proprio in quei luoghi, un giovane e squattrinato Paperon de’ Paperoni.

In realtà, l’avventura in Alaska si trasformò, per decine di migliaia di migranti, in un vero e proprio inferno, condito da stenti e fatiche dovute ai rigori del clima, se non dal costante timore di perdere anche la vita in un territorio dove la legge era quella del più forte.

A far cassa, infine, fu certamente il governo degli Stati Uniti, che incamerò settecento milioni di dollari di metallo prezioso, tanto da rendere possibile il riassestamento economico del paese.

L’acquisizione dell’Alaska rientrava, comunque, nella politica espansionistica ormai dilagante degli Stati Uniti, che, con le buone o con le cattive, proseguiva senza sosta nell’accaparramento dei territori limitrofi, iniziata quasi cent’anni prima, anche in ossequio alla Dottrina Monroe.

Insomma, quell’epopea della frontiera sembrava non dover mai terminare, alimentando continuamente il mito di un Paese in continua crescita, non solo demografica, come raccontato in quegli anni dallo storico Frederick Jackson Turner.

Una frontiera da spingere sempre più in là, anche per prevenire possibili crisi economiche, come quella accaduta negli ultimi vent’anni dell’Ottocento, foriere di deflazione e disoccupazione.

Da qui la nascita di una politica estera sempre più ‘aggressiva’, caratterizzata anche dal protezionismo, quasi un cavallo di battaglia che contraddistinguerà anche tutti i presidenti chiamati alla guida degli Stati Uniti.

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