I Venusiani della Mesoamerica

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Quixe (Quirino) Cardinale, un ufologo che faceva parte dello staff scientifico del C.I.R. (Centro Italiano Ricerche) di Roma, va ricordato per un paio di libri pubblicati negli anni Settanta del secolo scorso: Il ritorno delle civiltà perdute (1969) e Dalle galassie ai continenti scomparsi (1971).

Nel primo libro l’autore, in maniera del tutto originale, interpretava a modo suo glifi, bassorilievi e statuaria delle civiltà precolombiane, soprattutto maya, riconoscendovi senza ombra di dubbio strumenti scientifici, apparecchiature tecniche e astronavi appartenute a una civiltà proveniente da Venere.

D’altronde, sottolineava l’autore, Venere era «l’astro che tutte le tribù dell’antico Messico veneravano sino all’ossessione, tanto da indurli a costruire sontuosi templi in suo onore e a comporre almanacchi che conteggiavano simultaneamente l’anno terrestre e quello venusiano».

Per lui l’imbalsamazione non era altro che una brutta imitazione di un processo di ibernazione effettuato dagli extraterrestri, mentre l’offerta di cuori palpitanti alle divinità rappresentava un’assurda messa in scena di operazioni di trapianto cardiaco che gli indigeni avevano visto praticare ai venusiani.

Con il culto dei teschi, proseguiva Cardinale, i nativi messicani volevano emulare in qualche modo i caschi spaziali degli astronauti, che per comodità tenevano l’accessorio sotto il braccio destro oppure appoggiato in apposite rastrelliere. Anche la fasciatura della testa per modellare il cranio in senso oblungo, doveva essere per l’autore una tecnica in uso agli indigeni per ottenere una somiglianza con la conformazione craniale degli alieni. Incredibilmente pure il gioco sacro della palla doveva essere uno sport praticato in origine dagli extraterrestri, che «muniti di propulsore sulla schiena e sul capo, potevano permettersi delle vere e proprie acrobazie nell’aria, in quanto infilare la palla in un cesto sospeso a 9 metri circa dal terreno, era permesso soltanto a chi poteva sollevarsi da terra.

Il fatto poi che la palla potesse essere toccata soltanto con i gomiti, con le anche e con la pelota, nacque da una esigenza, in quanto questi uomini uccello avevano ambedue le mani impegnate, con le ‘cloches’ cioè con i comandi del propulsore. Indubbiamente era un gioco velocissimo ed il rotellino sotto il piede permetteva ai partecipanti di scorrere sui muri inclinati dello sferisterio».

Cardinale era convinto che la piramide circolare di Cuicuilco fosse davvero una rampa-parcheggio per dischi volanti, in grado di sopportare una spinta di svariate tonnellate. Ma tutte le altre piramidi della Mesoamerica avevano funzioni di astroporto: «Sulla terrazza parcheggiava l’astronave; per discendere a terra esistevano due discese: una a scale per gli indigeni, l’altra era uno scivolo per gli extraterrestri che muniti di propulsione, a mezzo del rotellino sotto il piede potevano a volo radente raggiungere il suolo».

Pare interessante l’approfondimento sullo Shamir, una perduta tecnologia già analizzata dal matematico ed etnologo russo Matest Agrest Mendelevitch: «Un frammento di tale minerale, della grandezza di un seme di senape, era in grado di emanare una tale forza, che gli uomini, per difendersi dai suoi raggi, dovevano avvolgerlo in panni di lana al momento dell’uso e richiuderlo poi in cassette di piombo, ricolme di semi di lino. Bastava tracciare una linea sulla roccia ed appoggiarvi sopra un grano di Shamir perché la pietra si fendesse silenziosamente in blocchi lisci e levigati, così perfetti che anche l’occhio più esperto non era in grado di riconoscere i punti di sutura tra un blocco e l’altro».

L’autore, oltre a far leva sui racconti mitologici degli Aztechi, per dar man forte alle sue originali idee non mancava di rifarsi ai postulati dell’occultista Helena Petrovna Blavatski, contenuti nelle ‘Stanze di Dzyan’, un’opera in due volumi pubblicata nella seconda metà del XIX secolo, che la fautrice della Società Teosofica scrisse ispirandosi a un misterioso libro verosimilmente custodito a Shamballa e mai rinvenuto.

Nel secondo libro, Cardinale ribadiva molte idee contenute nel precedente, spostando comunque l’attenzione sull’analisi dei racconti mitologici di altri continenti, soprattutto interpretando in senso ufologico i testi sacri del Cristianesimo, compresi gli apocrifi.

Egli aveva però esaurito del tutto la spinta propulsiva, probabilmente perché, in questo caso, gli artisti del passato non erano stati così incisivi, come quelli della Mesoamerica, nell’immortalare la discesa degli antichi astronauti.

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