Una dea, mille volti

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Nel corso dei millenni la primigenia Dea Madre subisce numerose metamorfosi, come se volesse sopravvivere a ogni latitudine: sarà Ishtar per Babilonesi e Assiri, Iside per gli Egiziani, Astarte per Fenici e Cananei e Demetra per i Greci. L’ultima reincarnazione che conosciamo potrebbe essere quella della Vergine Maria del Cristianesimo.

Le continue migrazioni dei popoli indoeuropei, iniziate nel V millennio a.C., produssero la sottomissione delle società stanzianti alla gente nomade con l’imposizione di nuovi usi e costumi, non esclusi quelli di divinità maschili da adorare al posto della primordiale dea della natura.

Queste molteplici trasformazioni, pur mantenendo intatte le primitive prerogative, condussero a un decisivo declassamento della dea, che nulla poteva stretta nella morsa di quel variegato pantheon ormai zeppo di divinità maschili.

Ecco che diventava moglie, madre o figlia di qualche dio che s’innalzava a un livello più elevato. In alcuni casi era drammaticamente umiliata, come dimostra la sorte di Era, consorte di Zeus. Nella mitologia greca rinveniamo sprazzi di Dea Madre anche in Circe, Medusa e Medea, ma siamo ormai agli sgoccioli perché queste figure evidenziano solo elementi negativi.

L’avvento delle grandi religioni monoteistiche sradicherà definitivamente il culto della Dea Madre. È la fine del matriarcato, la presa di coscienza dell’uomo di essere pedina importante, al pari della donna, nel grandioso progetto della creazione.

Ishtar è una delle divinità più importanti della mitologia babilonese/assira, degna erede dell’Inanna dei Sumeri, “Colei che mostra la via alle stelle” e sovente chiamata anche Nana: rappresentata come divinità astrale di Venere, collegata al cielo e alla terra, dea della guerra ma anche del parto e dell’attrazione erotica. Senza dimenticare la sumera Ninhursag, “Signora delle colline”, moglie di Enki e madre di Marduk, protettrice del parto e madre delle creature viventi della Terra. Secondo la mitologia babilonese, sarebbe stata lei a creare Enkidu, il compagno di Gilgamesh. Per gli Accadi diventerà Damkina.

Le prerogative di Ishtar sono numerose, quasi tutte riconducibili a quelle della Dea Madre: dea della fertilità, della natura e dell’agricoltura. Dal celebre poema epico Gilgamesh, redatto nel VII secolo a.C., apprendiamo la rabbia di Ishtar per il rifiuto di Gilgamesh e la richiesta avanzata dalla dea al padre Anu affinché gli scagli contro il Toro del Cielo. Nella circostanza, Ishtar minaccia di rompere i cancelli dell’oltretomba e liberare i defunti (e sappiamo bene che l’inframondo ricorre sovente anche in altri miti associati a Orione). Nella battaglia celeste che si scatena, Gilgamesh colpisce mortalmente il Toro e lancia quelle membra in cielo contro la dea: un’immagine così nitida potrebbe rammentare il corpo squartato di Osiride, poi ricomposto da Iside nell’oltretomba.

Ancor più pregnante, in proposito, il contenuto di una pregevole saga in cui Ishtar è presentata come perdutamente innamorata del giovane Tammuz, prematuramente morto in seguito alle ferite arrecategli da un cinghiale. La dea non si perde d’animo, discende nel regno dei morti e dopo aver superato prove sempre più difficili, giunge finalmente di fronte alla sorella Ereshkigal (e qui le similitudini anche con il racconto greco di Demetra e Persefone, come vedremo, si sprecano), solo per diventare sua prigioniera. La scomparsa della dea genera conseguenze disastrose nel mondo dei vivi, tanto che gli déi decidono di riportarla in vita, cospargendone il corpo con l’acqua della vita. E così Ishtar e Tammuz, che simbolicamente rappresentano rispettivamente la terra che si unisce al sole in Primavera, tornano in superficie, per perpetrare quel ciclo della vita rappresentato dalle stagioni. Il cinghiale che colpisce a morte Tammuz è quindi la rappresentazione del sole estivo.

Poiché Ishtar, come Inanna, è una Signora della Luce associata a Venere, scopriamo che dietro il mito c’è anche un altro significato, della Stella della sera che scompare a occidente e della Stella del mattino che riapparire ad oriente: la mancanza di Venere in cielo è in sostanza il periodo in cui Ishtar si trova nel regno dei morti.

La bella storia d’amore tra Dumuzi e Inanna era celebrata ogni anno dai Sumeri con un rituale che segnava il rinnovamento della vita umana, animale e vegetale. Sulla scorta delle iscrizioni rinvenute su alcuni cilindri di terracotta, tuttora conservati al museo del Louvre, e agli studi dell’assiriologo Samuel Noah Kramer, sappiamo che la cerimonia avveniva con la presenza dei regnanti sumeri, che si sostituivano alla coppia divina e, all’interno del palazzo reale, in una stanza appositamente destinata, si accoppiavano nuovamente in vece delle divinità. La rinnovata unione degli dèi aveva anche una forte valenza come sacra ritualità riferita alla prostituzione. Da quel che si sa, l’arte del meretricio ha avuto origine proprio qui, cioè in tutto il bacino del Vicino Oriente, dove veniva largamente praticata.

Gli elementi della storia di Ishtar ricorrono anche nella mitologia ellenica, dove la dea si trasforma in Afrodite e l’amante di turno Adone. Non ci stupiremo, quindi di scoprire che la dea celeste Afrodite (Ishtar) era in lizza con la dea infernale Persefone (Ereshkigal), figlia di Demetra, per conquistare Adone (Dumizi).

La dea egizia Iside, più di altre, racchiude in sé le migliori caratteristiche della Dea Madre. Ancor prima di lei, è Nut, dea della volta celeste, a rappresentare il principio femminino di cui necessita Ra per terminare la creazione. Non per niente Nut è la mamma di Iside, protagonista indiscussa delle vicende mitologiche dell’Antico Egitto. La creazione nell’antico Egitto è narrata in quattro versioni diverse, la più completa e conosciuta è certamente quella sviluppatasi nel centro di Eliopoli, con protagonista Amon o Atum, poi associato al dio del Sole Ra. Amon, dalle acque primordiali di Nun, fece nascere Shu e Tefnut, che a loro volta procrearono Geb e Nut. Questi ultimi diedero alla luce Osiride, Set, Nefti e Iside. Riassumendo, Set era geloso di Osiride e per questo lo uccise, smembrandone il corpo. Iside salverà il marito Osiride, riunendone i frammenti, con l’aiuto di Anubi, dio imbalsamatore e guida delle anime dei defunti.

Anche in questo caso, dobbiamo mettere in evidenza le similitudini con il mito mesopotamico di Ishtar (Iside) che salva l’amante Dumizi (Osiride) sprofondato nell’Oltretomba. Poiché il figlio della coppia regale, Horus, era la personificazione terrena di Osiride, meglio si comprendono gli sforzi dei Faraoni di rinascere in Osiride stesso. Da Il Libro dei Morti ricaviamo, d’altronde, che gli Egizi credevano fermamente in una vita ultraterrena, con la resurrezione dei regnanti nella costellazione di Orione. La faccenda ci sarà più chiara se ricordiamo che in Egitto, oltre al calendario solare e lunare, era in uso anche un calendario sotiaco, incentrato sul ciclo di Sirio, la stella della costellazione del Cane consacrata a Iside. E qui torna in gioco Orione, considerata la dimora di Osiride. Le piramidi della piana di Giza potrebbero essere la rappresentazione terrena delle stelle di questa costellazione (Zeta, Epsilon e Delta), con la Via Lattea rappresentata dal Nilo, la cui inondazione annuale, annunciata dalla levata di Orione, coincideva infatti con l’apparizione in cielo di Sirio, associata a Iside. I settanta giorni di assenza della stella era dovuta al passaggio di Iside attraverso il duat, l’oltretomba. Non per niente il processo di mummificazione era di settanta giorni e con la cerimonia dell’apertura degli occhi e della bocca, si realizzava la rinascita stellare dei sovrani.

Abbiamo già accennato, scrivendo di Ishtar, come le vicende di Gilgamesh, nella lotta contro il Toro con il lancio delle membra contro la dea, ricordino per sommi capi il corpo scomposto di Osiride, poi riordinato dalla compagna nel suo viaggio nel regno dei morti. Iside è quindi una Grande Madre: riportare in vita Osiride fa di lei l’eroina in grado di donare all’uomo una sorta d’immortalità; allo stesso tempo, è dispensatrice di morte quando punisce l’arroganza degli uomini che pur non riunendo i necessari requisiti di purezza, ugualmente si addentrano nella conoscenza segreta che ella rappresenta. Due aspetti diametralmente opposti del carattere, che abbiamo già visto, e vedremo ancora, in altre dee.

Astarte, Grande Madre dei Fenici e dei Cananei, era una divinità connessa alla fertilità e alla fecondità, riunendo quindi le stesse prerogative che già furono di Ishtar, adorata dai Babilonesi. Sicura la sua identificazione anche con l’egiziana Iside (ma anche con Sekhmet e Hathor). Divenne Afrodite per i Greci e Venere per i Romani. Venerata in tutto il bacino del Mediterraneo, soprattutto a Sidone, Tiro, Biblo e Cartagine, il suo culto s’estese poi a Malta, Cipro, in Sardegna e in Sicilia.

Il santuario maltese di Tas Silg dev’essere stato sicura meta di pellegrinaggio per tutte le genti del Mediterraneo. Diverse missioni archeologiche italiane hanno scavato in questo sito fin dagli anni Sessanta del secolo scorso, accertando che i resti strutturali del tempio risalivano alla fase Tarxien (seconda metà del IV millennio a.C., Tardo Neolitico). Tre millenni dopo, all’arrivo dei Fenici, la struttura templare, sia quella principale sia gli ambienti e spazi esterni, fu riutilizzata senza subire modifiche di rilievo. Tas Silg, caratterizzato dalle mura megalitiche con pianta a trifoglio, ha restituito anche una statua di culto in calcare, seppur con il solo busto intatto, che raffigura la consueta donna grassa della statuaria del periodo Tarxien. Solo verso la fine dell’occupazione punica, nel III secolo a.C., il santuario subì notevoli cambiamenti, con il nucleo megalitico inserito in un nuovo complesso ellenistico. Qualche lieve modifica fu apportata poi anche dai Romani. Qui furono rinvenute numerose iscrizioni votive puniche, inneggianti alla dea fenicia Ashtart o Astart (poi denominata Astarte), e greche, dedicate a Hera.

Sabatino Moscati scrisse che queste divinità erano “…le successive personificazioni della grande dea della fertilità, già venerata nel santuario maltese fin dal III millennio: si realizza e si esemplifica così quella continuità culturale sul luogo sacro… caratteristica del modo in cui la cultura fenicia e punica s’impianta nell’arcipelago maltese.

Un architrave, riutilizzato anche nel IV secolo della nostra era per la costruzione del battistero di una chiesa bizantina (nel cortile centrale del santuario), reca tuttora un’iscrizione punica con dedica ad Astarte. Anche a Gozo è stata trovata un’epigrafe punica che testimonia l’edificazione (o la ristrutturazione) di tre monumenti templari, almeno uno dedicato ad Astarte nel II secolo a.C.

La dea è sovente rappresentata con le corna o con la testa di un toro, chiaro rimando al culto del Toro Celeste, ma anche alla posizione delle tube e delle ovaie, ancora uno specifico richiamo alla fertilità. È strettamente connessa alla rinascita e all’arrivo della primavera, perché il suo sposo Tammuz è sinonimo di morte e resurrezione. Allo stesso modo, anche il compagno di Afrodite, Adone, conteso da Persefone, che alla morte è obbligato da Zeus a dedicarsi alternativamente ad entrambe le donne.

Secondo la tradizione, Astarte si accoppiò con il dio Baal per creare il genere umano. I Fenici la raffiguravano in statue e bassorilievi, con le stesse fattezze dell’originaria dea madre: completamente nuda, con le mani che sorreggono il seno, sovente mentre allatta e, ancora, adornata con fiori di loto o serpenti.

Nel sito palestinese di Tell Beit Mirsim (la biblica Debir), è stato rinvenuto un bassorilievo di una dea avvolta da un serpente: questo particolare, secondo Laura Rangoni, “…si fa interessante perché è indice del rapporto che lega l’antica Dea della fertilità con la più tarda Eva.” Il connubio con l’animale strisciante, simbolo di conoscenza, si ritrova anche a Creta, dove sono state rinvenute diverse statuette inneggianti a una divinità con serpenti, databili tra 5.000 a.C. e 1.700 a.C.

Gli scavi archeologici in Palestina hanno restituito numerose statuette stilizzate della dea Astarte, negli strati corrispondenti alla civiltà cananea prima dell’arrivo degli Israeliti. Questo significa che a metà del II millennio a.C. il culto della divinità era ancora ben radicato. A destare sorpresa, semmai, è il ritrovamento di analoghi manufatti anche negli strati corrispondenti ai regni d’Israele e di Giuda (XII-VII secolo a.C.).

Di particolare rilievo, nel culto dedicato ad Astarte, rivestiva la prostituzione sacra, fenomeno largamente presente nella cultura semita poiché connesso con la pratica dei riti di fertilità. La prostituzione sacra era vista come il necessario tramite con cui l’uomo poteva comunicare con la Dea Madre. Nonostante la forte opposizione del cristianesimo, questi rituali proseguirono almeno fino al IV secolo d.C.

Anche la Bibbia si occupa di Astarte, con parole che non lasciano adito a interpretazioni: “Il re profanò gli alti luoghi che erano di fronte a Gerusalemme, a destra del monte della perdizione, e che Salomone re d’Israele aveva eretti in onore di Astarte, l’abominevole divinità dei Sidoni…” (Re, 23:13). La divinità doveva essere particolarmente invisa per il nascente culto monoteista; le sacre scritture dettano le condizioni necessarie affinché l’antico culto della Dea Madre sia rinnegato per sempre: “Demolirete i loro altari, spezzerete le loro statue, darete alle fiamme i loro idoli d’Astarte, abbatterete le immagini scolpite dei loro dèi e farete sparire il loro nome da quei luoghi.” (Deuteronomio, 12:3); “Allora Samuele parlò a tutta la casa d’Israele, e disse: «Se davvero tornate al Signore con tutto il vostro cuore, togliete di mezzo a voi gli dèi stranieri e gli idoli di Astarte, volgete risolutamente il vostro cuore verso il Signore e servite lui, lui solo. Allora egli vi libererà dalle mani dei Filistei». Così i figli d’Israele tolsero via gli idoli di Baal e di Astarte, e servirono il Signore soltanto.” (Samuele 7:3-4).

La dea della fertilità, sicuramente connessa all’agricoltura, diventava Demetra per i Greci, Vei per gli Etruschi e infine Cerere per i Romani. Il culto pare attestato fin dalla metà del II millennio a.C., anche se prove inconfutabili in tal senso risalgono al VII secolo a.C. Tracce di Demetra e dei suoi misteri eleusini si rinvengono nel santuario di Eleusi, dimora terrena della divinità a circa venti chilometri da Atene.

Un misterioso santuario dedicato a questa dea è quello di epoca etrusco-romana rinvenuto a Macchia della Valli di Vetralla, a Viterbo. Si tratta di una fenditura nella roccia, scoperta recentemente e quindi sfuggita agli scavi clandestini di quella zona, risalente al III secolo a.C. Già la sua vicinanza con una grotta naturale e a una sorgente d’acqua la dice lunga sulla sacralità del luogo. All’interno dell’anfratto è stata trovata una piccola cella cultuale con una statua in terracotta con le sembianze della divinità femminile seduta sul trono. Il rinvenimento di una moneta romana certifica che il santuario è stato frequentato almeno fino al II secolo d.C., per poi essere abbandonato dopo averlo celato alla vista con l’accumulo di residui di cava. All’interno del santuario fu rovesciata una sostanza che poteva essere, in origine, anche liquida, tanto da far pensare potesse essere il ciceone, la bevanda d’acqua, farina di orzo e menta ricorrente nei riti dedicati alla dea. Paola Di Silvio, nell’articolo “Demetra e i cavalli” apparso sulla rivista Archeo nel settembre 2012, ci spiega che Demetra “…è nota in Etruria sin dal VI secolo a.C., come attestano i vasi greci con le sue raffigurazioni, ma gli elementi di connotazione demetriaca del culto di Vei si fanno particolarmente evidenti a partire dai primi decenni del V secolo a.C., fino alla sostituzione del culto di Demetra a quello della divinità indigena, così come documentato dal santuario di Maccia della Valli.

Rappresentata con la falce e un mazzo di spighe in mano, le sue vesti avevano i colori accesi della primavera, poiché erano i fiori di campo che la ornavano. Tra le caratteristiche salienti della dea, il fatto di non avere mai un compagno e di accoppiarsi ripetutamente con l’amante di turno, fuori da ogni contesto d’unione. Per Laura Rangoni questo indica “…che la Dea è un esempio di ‘verginità’, ovvero di disinteresse per il vincolo coniugale e di indipendenza dal maschio, come lo saranno anche se in modo diverso, Artemide ed Hestia.

La figlia di Crono e Rhea, accoppiandosi col fratello Zeus, diede alla luce Persefone, poi rapita per amore da Ade, principe degli inferi. Le versioni del mito differiscono enormemente, pur rimanendo invariato il nucleo centrale della vicenda, cioè la dea che si pone alla ricerca della figlia rapita. Questa ragion d’essere sta alla base dei misteri eleusini, enigmatici e antichissimi riti che duravano cinque giorni e a cui potevano partecipare solo le donne sposate; tra processioni, danze e canti, venivano celebrati annualmente nel santuario di Eleusi, dimora terrena della divinità a circa venti chilometri da Atene. Questi riti perdurarono anche sotto il dominio di Atene, dal VII secolo a.C., espandendosi a macchia d’olio per arrivare fino a Roma. Furono i Visigoti di Alarico, già seguaci dell’Arianesimo (dottrina elaborata in Egitto dal monaco cristiano Ario, bandita durante il primo concilio di Nicea nel 325 perché considerata contraria alla Trinità; in sostanza, Ario riteneva che Gesù non potesse essere considerato allo stesso livello del Padre. L’idea sopravvisse, dilagò in tutto l’Oriente e divenne, addirittura, la principale religione dell’impero romano ai tempi di Costanzo II, poco prima del disfacimento), a sancire la fine dei rituali nel 396 d.C., con il saccheggio e la distruzione del tempio consacrato alla dea.

Laura Rangoni ci informa che “…secondo alcuni studiosi il culto è chiaramente di origine pre-ellenica e ha la sua genesi nel culto delle Dee Madri, presenti in tutto il Mediterraneo da tempi immemorabili.” I rituali dedicati a Demetra vertevano essenzialmente in una fase di purificazione (in primavera, con la discesa negli inferi della dea alla ricerca della figlia rapita da Ade) e in una fase consacratoria (in autunno, con la ricerca e il ricongiungimento a Persefone), che ben rappresentavano il ciclo dell’eterna rinascita in agricoltura. I riti misterici legati alla figura di Demetra e Persefone erano riservati a una ristretta cerchia d’iniziati che doveva mantenere l’assoluto riserbo. L’iniziazione ai misteri era, infatti, una pratica segreta parallela ai culti ufficiali ed era tramandata solo agli ammessi. La celebrazione dei rituali avveniva di notte e consisteva simbolicamente nell’incontro con la morte, che andava sconfitta per ritornare in vita. Il percorso iniziatico appariva quindi necessario per assicurarsi un’altra vita, oltre a quella terrena.

Nel mito di Demetra e della figlia Persefone rinveniamo il segno più evidente delle caratteristiche della Dea Madre, nel duplice aspetto di dea della fertilità e dea della morte. Senza tralasciare il fatto che, uno dei figli che Persefone ebbe da Ade, Dioniso detto il sotterraneo (Chtonios), prima ancora di essere ricordato come dio del vino, rappresenta la linfa vitale che scorre in superficie: un tratto d’unione evidente tra le caratteristiche di Demetra e di Persefone, che oltre a segnalare la rinascita dall’oltretomba, rappresenta il fluire vitale insito nell’uomo e l’essenza stessa che anima l’intero universo.

La presenza di un culto stagionale dedicato al figlio di Persefone, Dioniso, nel celebre santuario di Delfi, non deve sorprendere perché questo è uno di quei luoghi sacri dedicati fin dall’antichità al culto della Dea Madre. Le cose cambiarono dal VII secolo a.C., quando il tempio fu consacrato ad Apollo, divinità maschile per antonomasia. La mitologia greca ci racconta che la fonte oracolare era custodita dal gigantesco drago/serpente Pitone, figlio di Gea, nato dal fango della terra dopo il diluvio universale. Fu Apollo a uccidere quest’essere e, da quel momento, il culto divenne quello di Apollo Pitio, che concesse l’oracolo a Pizia, una delle sacerdotesse vergini di Delfi, che iniziò a vaticinare in nome del suo dio. In realtà, come spiega la dott.ssa Margherita M. D. Bottino, secondo la leggenda Delfi “…era originariamente sacro a Gea, personificazione e dea della Terra. Quando però Apollo, peregrinante in cerca di un sito in cui edificare un tempio proprio, vi giunse, fu talmente attratto dalla bellezza del paesaggio da uccidere il serpente Pitone che lo custodiva e da farvi costruire il tempio. Anche in questo caso il mito nacque su una realtà ben precisa. I rinvenimenti archeologici nella zona del santuario, infatti, attestano un cambiamento di sesso nelle statuette votive: dapprima (nei secoli XIV-XI) raffiguranti la divinità femminile cui era consacrato il luogo, furono soppiantate (nei secoli XI-IX a.C.) da altre riproducenti personaggi esclusivamente maschili.” Pare che gli ultimi sacerdoti del culto primigenio, per impedire che anche a Delfi fosse eretta una chiesa (sorte toccata a numerosi altri luoghi di culto), distrussero gran parte degli edifici.

Cerere (dal latino Ceres), adorata dai Romani come divinità materna, della terra e della fertilità, era già oggetto di culto da parte di altri popoli che vivevano nella penisola italica e le sue peculiarità furono poi assimilate a Demetra, poiché notevoli erano le analogie, per esempio la figlia Proserpina poteva essere identificata in Persefone, figlia dell’altra.

Cerere lascia segno di sé sia a Lavinio per una lamina con un’iscrizione, sia a Roma con un santuario del V secolo a.C. Stando alla leggenda, Lavinio fu fondata da Enea in fuga da Troia, nel 1183 a.C. Il nome della località deriva da quello della moglie di Enea, figlia di Latino, re degli Aborigeni. A parte la tradizione, non c’è dubbio che Lavinio sia stata un grosso centro religioso, in cui si ritroverà anche il culto di Venere e altre divinità (Athena Illias, Giuturna e Indiges).

Si soleva rappresentarla come una signora bella e imponente, con la corona di spighe sul capo, una fiaccola e un canestro con grano e frutta. Questa dea è assimilabile anche all’altra divinità romana Tellus, che poi confluirà nella sua figura. Anche nel culto di Cerere compare il mondo dei morti con la cerimonia del Caereris mundus, in cui era aperta una fossa in tre particolari giorni dell’anno, come fosse uno stargate che potesse connettere vivi e mori.

Cibale era la dea della montagna sulla quale s’incentrata la religione misterica della Frigia, un’antica regione dell’Anatolia centrale che deve il suo nome ai Frigi, una popolazione proveniente dai Balcani, che vi si stanziò sul finire del II millennio a.C., quando l’impero degli Ittiti era ormai agli sgoccioli.

Immortalata con una lunga veste, una cintura alla vita e un copricapo cilindrico, questa versione di Dea Madre, per certi versi ancora tutta da studiare, è particolarmente interessante perché associata alla divinità minore Attis fortemente collegato alla primavera e, proprio per questo, secondo la tradizione destinato a morire per poi risorgere. La dea veniva sovente effigiata in compagnia di un paio di leoni, a volte leopardi, considerati animali sacri di Cibele.

Il centro di culto dedicato a Cibele era a Pessinunte (oggi Balthisar) – indissolubilmente legata anche al re Mida, colui che trasformava in oro tutto ciò che toccava; d’altronde, il mitico regnante era figlio di Cibele e fu lui, stando alla tradizione, a erigere le fondamenta del primo tempio di culto misterico dedicato alla dea nel VII secolo a.C., a un centinaio di chilometri dall’odierna Ankara. C’è chi invece sostiene che furono le Amazzoni, per prime, a costruire un recinto sacro a Cibele, in seguito ricordata come Artemide. Strabone scrisse che il nome stesso del luogo di culto derivava da quello di una regina delle Amazzoni, tale Efesia. Il tempio della dea a Pessinunte, datato al II secolo a.C., fu scoperto nel 1967 sulla riva del fiume Gallos dagli archeologi belgi della Ghent University. Marion Giebel ci racconta che proprio a Pessinunte “…si trova l’agalma, l’idolo della dea caduto dal cielo, un meteorite nero. In questo meteorite veniva venerata la forza arcana della Grande Dea.

Altri luoghi d’interesse, templi e monumenti dedicati a Cibele, si trovano sempre in quella che fu la Frigia, nella regione di Afyon, tra Ankara e Smirne, soprattutto vicino al lago di Emre Gol e nella valle di Kohnus: in quest’ultima località è tuttora visibile l’Yilantas (detta comunemente “tomba del leone rotto”), un monumento in cui ci sono due leoni che si fronteggiano in maniera araldica, una scena che ritroviamo anche nell’Aslantas (“roccia del leone”).

Numerose statuette riproducenti Cibele o Artemide, sono state rinvenute in scavi archeologici di diverse cittadine della Turchia, anche se la più stupefacente delle statue è tuttora conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli: si tratta di una riproduzione attribuita ai Romani, dopo che l’originale andò distrutto.

Testimonianze del culto di Cibele in Italia provengono anche da Montevergine – dove oggi c’è un santuario dedicato alla Vergine Maria -, dal nome della Congregazione Benedettina fondata da Guglielmo Abate, in origine un nobile di Vercelli che si fece monaco e partì per la Palestina e dare man forte ai Crociati. I fatti narrati sarebbero successi tra il 1118 e il 1124 e, come spiega Alfonso Piscitelli sulle pagine della rivista Fenix, Guglielmo “…scende quindi la penisola, intenzionato a imbarcarsi a Brindisi per l’Oriente. Passa i boschi dell’Irpinia e qui gli appare la Madonna, lo ferma e gli ordina di creare un grande santuario per Lei. Ma attenzione: qual è il punto in cui a Guglielmo appare la Madre di Dio? È il punto esatto in cui anticamente sorgeva il tempio di Cibele, madre divina. Quel tempio era andato completamente distrutto, non vi era traccia di colonne e archi e ovviamente Guglielmo non era archeologo per sapere l’originale destinazione di quel luogo. Eppure lì l’Archetipo vive e possentemente rigenera. Chi è colei che appare al nobile Guglielmo se non l’antica Cibele, sotto le moderne vesti di Maria Madre di Dio?”. Quanto sostenuto da Piscitelli trova conferma nelle parole leggendarie di Virgilio, che si sarebbe recato al tempio per consultare l’oracolo di Cibele, ma gli fu impedito: non si perse d’animo e tornò spesso su quelle cime, arrivando a realizzare un orto botanico per curare chi ne avesse bisogno. Anche Roberto De Simone, dalla consultazione di vecchi documenti, ha provato che a Montevergine esisteva in origine un santuario dedicato alla dea della montagna.

Il culto di Cibele è attestato al periodo ellenistico. Introdotto ad Atene da un vaticinio dell’oracolo di Delfi, il culto s’estese rapidamente in tutte le colonie greche dell’Asia Minore. Il culto prevedeva la castrazione dei sacerdoti con un coltello d’ossidiana (pietra sacra alla divinità), un rituale necessario per consacrarsi al rito misterico: narra la leggenda che Attis, dopo aver tradito Cibele, per punizione si castrò e morì dissanguato.

Alla fine del II secolo a.C. questo culto approdò in pompa magna anche a Roma, con l’arrivo della statua della dea direttamente da Pessinunte. Il trasloco si era reso necessario perché così avevano sentenziato i Libri Sibillini, interrogati dagli àuguri (i sacerdoti dell’antica Roma designati a interpretare la volontà degli dèi) durante le alterne vicende della seconda Guerra Punica. La vicenda è narrata dagli storici Livio, Ovidio e Varrone: il culto venne ufficializzato con deliberazione del Senato nel 204 a.C. e da Pessinunte giunse a Roma la “pietra nera” caduta dal cielo che simboleggiava la dea. Fu quindi edificato un tempio consacrato sul Palatino. Tuttavia la ritualità attorno alla Magna Mater (così era chiamata Cibele a Roma), rimase inizialmente segregata poiché i suoi riti erano considerati immorali e solo con l’imperatore Claudio, a metà del I secolo d.C., fu abolita la restrizione e istituita la festa di primavera dal 15 marzo al 4 aprile. Due secoli dopo il culto era ancora praticato all’arrivo della primavera, anche se, saggiamente, non c’era più la castrazione dei sacerdoti: l’iniziato doveva entrare in una fossa e, dall’alto, veniva raggiunto e battezzato dal sangue di un toro sgozzato, come ci racconta il poeta romano Aurelio Prudenzio Clemente. Così facendo, rinasceva a nuova vita; seguiva quindi il banchetto rituale con la carne del toro, mentre i genitali dell’animale erano simbolicamente consegnati alla Dea, in un anfratto, dove metaforicamente la Grande Madre si congiungeva con l’iniziato affinché questi potesse rinascere come Attis. Durante questa suggestiva cerimonia i sacerdoti, con indosso abiti femminili e con il trucco al volto, facevano uso di una bevanda allucinogena (forse la stessa che allietava i riti dedicati a Demetra, il kykeon, composta da un miscuglio di acqua, farina d’orzo e menta) e non mancava la musica martellante, un aspetto che abbiamo già incontrato in altri culti riconducibili alla Dea Madre.

L’immagine di Cibele, ovvero una donna con le torri in testa, è ancor oggi la rappresentazione dell’Italia. Dirompente il fatto che gli elementi del culto di Cibele e Attis ricorrano sovente in quelli del Cristianesimo: l’albero addobbato una volta all’anno, la castità dei sacerdoti, il rito dell’eucarestia con la carne e il sangue del dio risorto.

Circe, figlia del dio Elio e di una delle figlie di Titano (Perseide), trascorreva i suoi giorni sulla selvaggia isola di Eea. La tradizione ce la racconta come maga, regina degli amori non corrisposti. Ne fece le spese Scilla, che ebbe l’ardire di occupare il suo posto nel cuore di Glauco, e per questo trasformata in mostro. Ne sappiamo qualcosa di più da Omero poiché questa strega fa la sua degna comparsa nell’Odissea: Ulisse approda proprio nell’isola di Circe e molti suoi uomini, dopo aver assaporato la cucina della maga, sono trasformati in maiali. Con l’aiuto del dio Ermes e di una pozione magica, il nostro eroe riuscirà a scamparla e a liberare i compagni di viaggio. Dopo una breve permanenza sull’isola (e un figlio da Circe), Ulisse accetta il consiglio della maga di recarsi nell’Inframondo per chiedere lumi all’indovino Tiresia e riuscire, finalmente, a tornare a Itaca.

Nell’Odissea ci sono altri echi di Dea Madre: il canto delle sirene è simile a quello dell’enigmatico Tiresia che Ulisse, su suggerimento di Circe, incontrerà poi nel regno dei morti. Tiresia ha conservato il dono di vaticinare, pur osteggiato dagli déi, grazie all’intervento di Persefone che gli permette di pronunciarsi ancora per mezzo del canto: armoniose parole che provengono dagli inferi, destinate secondo Tiziana Villani (Demetra la dea madre, Ass.Cult. Mimesis, 1999) solo agli iniziati, a “…coloro che hanno imparato a scorgere la trama del destino tra le danze e le lamentazioni…

Tra le righe della sua opera, anche Omero pare sussurrarci quale indizio: d’altronde, Circe vive in piena simbiosi con la natura e, da maga qual è, conosce i segreti più reconditi con cui sottomette gli uomini che le vengono a tiro.

Ecate, che alcuni mitologi indicano come un aspetto di Demetra nella vecchiaia, è passata alla leggenda come la dea che poteva muoversi liberamente sia in questo mondo, sia in quello dei morti, ma ancor di più nella casa degli déi. Alcune sue raffigurazioni la mostrano con delle fiaccole, necessarie per accompagnare i vivi nell’altro mondo.

La dea era ben conosciuta in Tessaglia, Tracia e in Anatolia con il nome di Hecate: uno dei più conosciuti santuari a lei dedicati era quello di Lagina, in Turchia, un luogo sacro almeno dall’età del bronzo, da dove provengono i fregi oggi esposti nei musei di Istanbul; in questi fregi sono immortalati, fra l’altro, una battaglia tra divinità e giganti e una battaglia di Amazzoni.

Secondo una delle tante tradizioni, come figlia di Zeus, sarebbe stata Ecate ad avvertire Demetra che la figlia Persefone era stata rapita e portata negli inferi. L’altra versione del mito, secondo Esiodo, indica la dea figlia dei Titani Asteria e Perse.

Sono notevoli le similitudini anche con Diana o Artemide per via della medesima associazione ai cicli del nostro satellite. E non possiamo dimenticare la falce di luna nelle immagini di Ishtar e le corna in quelle di Hator: fortissima l’associazione della Dea Madre con la Luna.

Ecate, col tempo, divenne una divinità assimilata alle arti magiche e quindi alla stregoneria: forse per questo si racconta che fu proprio lei a istruire Circe e Medea (di eri scriveremo tra breve) e a iniziarle ai misteri. Tra mondo dei morti e stregoneria, ne viene fuori una divinità particolarmente negativa, anche se le prerogative iniziali erano quelle benefiche dell’originaria Dea Madre: una trasformazione che abbiamo annotato in altre circostanze, le cui ragioni vanno ricercate nel tentativo (in buona parte riuscito) di annullare il potere femminile del culto primigenio, iniziato dai Greci e proseguito senza sosta nei secoli.

Artemide, come abbiamo scritto, assomiglia molto a Ecate, tanto da venire spesso identifica con quest’ultima, anche se per alcuni l’accostamento risulta forzato perché Ecate è considerata soprattutto dea della luna calante. Figlia di Zeus e sorella del ben più noto Apollo, Artemide ha punti di connessione anche con Diana, come dea della caccia, della selvaggina e dei boschi. Non per niente tra i simboli a rappresentarla anche il cervo e il cipresso, ineccepibili esempi di fauna e flora. Mentre in età arcaica la dea era immaginata alata, attorniata anche da fiere, in quella classica diventava una vergine della caccia, vestita e armata come un’amazzone e circondata da animali della foresta. In alcune rappresentazioni pare emergere anche una prerogativa connessa al mondo dei morti, e qui l’Artemide che uccide con le frecce scagliate dal suo arco (la leggenda ci dice che l’arma fu forgiata dai Ciclopi) ci riporta alla mente una delle caratteristiche della dea originaria. Successivamente verrà raramente raffigurata con una corona lunare, a voler significare una sua identificazione con il satellite terrestre.

Artemide conservava ancora qualche labile prerogativa dell’originaria Dea Madre, poiché taluni la credevano anche dea del parto e della fertilità. Il suo culto era esteso a tutta la Grecia, in particolar modo a Delo, l’isola natale, Efeso e Sparta. Quella che veniva chiamata “Signora di Efeso”, una Dea Madre primordiale a cui era consacrato appunto un tempio in quella città, potrebbe essere con ogni probabilità la stessa Artemide. Ancor oggi il luogo sacro è identificato come Tempio di Artemide: molteplici sono le connessioni tra la Vergine Maria, madre di Gesù, e questo luogo.

Il culto alla dea Madre in Anatolia aveva il suo epicentro proprio a Efeso, con il tempio a lei consacrato che era chiamato anche Artemisio (una delle Sette Meraviglie del Mondo), e lì nei pressi c’era anche una sorgente sacra. Dagli scavi archeologici sappiamo che il tempio, ormai completamente distrutto, aveva un’ampiezza di 78 metri per 10 e la facciata era composta da otto colonne che reggevano un enorme frontone. Con la diffusione del cristianesimo in Turchia, molte delle pietre di questo tempio furono utilizzate per la costruzione della Chiesa di San Giovanni, ancor oggi visibile in cima alla vicina collina. Nei pressi di Efeso, la Madonna trascorse una decina d’anni dopo la morte del figlio. San Paolo, a quel che sembra, aveva proprio qui la sua bottega mentre San Giovanni vi scrisse il suo vangelo.

In antichità Efeso era un porto, poi le alluvioni del fiume Meandro la fecero arretrate di una decina di chilometri. Qui, prima che i Romani se ne andassero nel III secolo d.C., sorgeva, come abbiamo già scritto, il tempio dedicato ad Artemide, dea della natura e della fertilità, ma il culto a una precisa divinità con le stesse caratteristiche risale ad almeno quattromila anni prima, e c’è chi sposta l’inizio del culto al 7.000 a.C. Sta di fatto che nel 431 della nostra era proprio qui si svolse il Concilio ecumenico in cui furono cassate le tesi della scuola di Antiochia sulla figura umana della Madonna, postulate nella circostanza da Nestorio, patriarca di Costantinopoli. Si decretava così la fine dell’aspetto materiale della Grande Dea.

Nelle vicende di Artemide, così come ci sono giunte dalle frammentarie cronache mitologiche, c’è un sicuro nesso anche con la strega Circe: Artemide trasformava gli amanti in animali del bosco, mentre Circe, come abbiamo già scritto, preferiva attorniarsi di maiali.

Le cronache ci raccontano anche di come Artemide uccise il bell’Orione con il morso di uno scorpione, poiché il cacciatore infastidiva le Pleiadi. Sia lo scorpione sia Orione furono subito dopo trasformati nella costellazione che conosciamo, con il cacciatone in perenne fuga da quel morso mortale. Una delle sette sorelle della costellazione, Taigete, era compagna di caccia di Artemide e anch’essa insidiata, stavolta da Zeus in persona e quindi trasformata in cervo dalla dea. Giusto infine fare un cenno anche alle continue liti tra Artemide e Afrodite, altro mitico personaggio del pantheon greco.

Giunti alla fine nella trattazione delle varie incarnazioni di Dea Madre nel bacino del Mediterraneo, non ci resta che tracciare per sommi capi anche la figura di Medea, la sfortunata maga che riuscì a tradire il padre e a uccidere il fratello (solo per scriverne due) per il sentimento – indottole da Eros – che la legava all’argonauta Giasone. Tutto perché Giasone voleva impossessarsi del celeberrimo Vello d’oro. Una bella storia, che vede complottare alle spalle di Medea due pezzi da novanta del pantheon, Era ed Afrodite. Il Vello d’oro era una pelle d’ariete, in grado di guarire le ferite, che dopo varie vicissitudini giunse al re della Colchide Eete, padre di Medea. Il sovrano, ben conscio del valore inestimabile dell’oggetto, lo nascose in un bosco con un drago (o un enorme serpente) a proteggerlo. Giasone, con l’aiuto di Medea, riuscì a superare le difficili prove sulla strada che conduceva al Vello. Col Vello in mano, Giasone e Medea s’imbarcarono sull’Argo e ne andarono, ma la strega pensò bene di rallentare l’inseguimento del padre uccidendo il fratello e facendolo a pezzi.

Le nefandezze di Medea proseguirono e non è il caso di andare oltre, perché avrete compreso che questa divinità ha molti tratti in comune con le nefandezze attribuite alle streghe nel Medioevo.

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