Nel 1200 a.C. genti indoeuropee particolarmente bellicose gettarono scompiglio in tutto il Mediterraneo orientale, sancendo il declino delle civiltà che fino allora avevano prosperato.
Furono chiamati “popoli del mare”, e non v’è dubbio che solcassero questo mare interno, fossero valenti marinai e avessero efficienti imbarcazioni.
Alcune fonti egizie indicano queste genti come provenienti da Haou-Nebout e Antonio Crasto ritiene che il termine sia da tradurre come “I signori delle isole”, cioè le isole dell’Egeo. Altri studiosi credono di poter attribuire a Haou-Nebout il significato di madrepatria dei popoli del mare, provenienti dal “Grande Verde” (mare universale), che Pierluigi Montalbano definisce come “…un vasto spazio abitato da un insieme di razze con cui gli egizi ebbero intensi rapporti.”
Fu una grande dispersione di uomini che pose termine anche all’Età del bronzo, poiché introdussero la metallurgia.
Ancor oggi con questo termine generico s’intende un insieme di popolazioni, non sappiamo con quale grado di omogeneità, forse una confederazione, tra cui vanno ricordati almeno gli Achei, i Filistei, gli Etruschi, i Sardi e i Siculi.
Individuare un luogo d’origine per i popoli del mare, che alcuni identificano anche nei Pelasgi per ricorrenti caratteristiche architettoniche sviluppate da quel momento, rimane veramente arduo.
Si ritiene che questo moto migratorio per terra e per mare possa essere partito dal nord dell’Europa, forse dalla Danimarca, anche a causa dell’eruzione del vulcano islandese Hekla nel 1159 a.C., che potrebbe aver causato, come sostiene Brian Fagan, “…un fallimento dei raccolti e una conseguente carestia su una vasta area dell’Europa settentrionale.”
I migranti raggiunsero prima le coste dell’Anatolia, poi le isole a sud est della Grecia, per inciso le Cicladi e Lemno.
Con un po’ d’immaginazione potremmo riconoscere in questi migranti genti di Iperborea, la terra leggendaria raccontata da poeti e storici greci nel I millennio a.C.
Questa migrazione in massa può essere spiegata da un lungo periodo di gravi siccità che interessò le rive orientali del Mediterraneo, come spiegano l’archeologo Israel Finkelstein e la palinologa Dafna Langgut dell’Università di Tel Aviv, dopo aver studiato le particelle di polline estratte dai sedimenti del lago Tiberiade. L’analisi ha permesso di stabilire che tra il 1250 e il 1100 a.C. circa la caratteristica flora mediterranea fu quasi del tutto soppiantata da quella che comunemente si trova in regioni semiaride.
Già l’archeologo Rhys Carpenter, in un libro pubblicato nel 1966, aveva suggerito che il declino in quel periodo storico fosse dipeso da uno spostamento verso nord dei venti secchi provenienti dal Sahara: l’instaurarsi di un clima arido, con una prolungata carestia, mise in ginocchio il Peloponneso, la civiltà micenea, Creta e l’Anatolia.
Le mutate condizioni climatiche produssero un effetto a catena: molte popolazioni in fuga si riversarono in altri territori, provocando la fuga di altre anche per mare. Non è difficile immaginare un periodo di carestie e di saccheggi che sconvolsero la convivenza civile.
Da quelle coste è plausibile che siano partiti questi disperati per sconvolgere le civiltà del Mediterraneo: Ittiti, Egizi e Micenei ne fecero le spese.
In Egitto, durante il regno del faraone Takeloth II della XXII dinastia (fine VIII secolo a.C.), già travagliato da divisioni interne, il peggioramento del clima contribuì alla disgregazione dello stato unitario.