L’enigma dei Teschi di cristallo

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Nel 2012 scrissi un libro, ‘OOPART – Gli oggetti impossibili del nostro passato’ (Cerchio della Luna Editore), in cui analizzavo criticamente gli Out of Place Artifacts, un termine inglese da tradurre in ‘manufatti fuori posto’. Il modo di dire fu introdotto, per la prima volta, dallo scrittore e naturalista Ivan Terence Sanderson, vissuto nel secolo scorso. Questi oggetti sono i reperti archeologici e paleontologici che spesso si trovano un po’ dappertutto e che stando alle nostre attuali conoscenze non dovrebbero esistere poiché inseriti in un contesto storico in cui l’uomo non poteva semplicemente disporne.Oggi vi racconto dei celeberrimi teschi di cristallo, in un articolo già pubblicato in due parti sulle pagine della rivista SpHera (dicembre 2010 e gennaio 2011) diretta dal giornalista Massimo Bonasorte.

 

 

 

 

 

Un rinvenimento controverso

Il teschio Mitchell-Hedges

I teschi di cristallo sono tra i manufatti più controversi e come tali non potevano sfuggire alla nostra attenzione. Rammentando che nessun teschio di cristallo proviene da scavi archeologici documentati, e già questo la dice lunga sull’autenticità dei reperti, andiamo subito a indagare su quello più noto, legato alla figura dello scrittore e avventuriero Frederick Albert Mitchell-Hedges, vissuto tra il XIX e XX secolo. Le incerte cronache di un periodo in cui l’archeologia era senza dubbio più “romantica” di oggi, narrano che nel 1923 l’inglese partecipò a una spedizione nell’Honduras britannico (l’attuale Belize) finanziata inizialmente anche dal British Museum; con lui c’era l’ufficiale medico Thomas Gann, che aveva già scavato quelle rovine vent’anni prima.

L’artefatto fu scoperto il 1° gennaio 1924 a Lubaantun (in lingua Maya “luogo delle pietre cadute”), dalla figlia adottiva di Mitchell-Hedges, l’adolescente Anna, nel giorno del suo compleanno. La ragazza rinvenne parte del teschio tra le macerie di un altare sulla sommità di una piramide; tre mesi dopo fu ritrovata anche la mandibola, a una decina di metri di distanza. Mitchell-Hedges consegnò il teschio agli indigeni (che ritenevano vi dimorasse una divinità) ma nel 1927, al termine degli scavi, gli fu restituito in segno di gratitudine.

La circostanza dell’importante scoperta fu resa nota solo nel 1954, nel volume autobiografico “Danger My Ally”: “…fatto in puro cristallo di rocca, secondo gli studiosi ci sono voluti circa 150 anni di paziente lavoro per fargli raggiungere la forma definitiva. Generazione dopo generazione, i valenti artigiani che ci hanno lavorato ogni giorno della propria vita l’hanno levigato con una tecnica particolare, sfregandolo con la sabbia, permettendogli così letteralmente di emergere da quell’unico grosso blocco di cristallo che era in origine… ha almeno 3.600 anni e, secondo la leggenda, era usato dai sacerdoti maya durante i riti religiosi”.

Il fatto che la mandibola fosse mobile poteva essere correlato a una funzione religiosa del teschio quale strumento di divinazione (con i sacerdoti che lo avrebbero manovrato in tal senso), replicante alla perfezione un teschio umano con il diametro di 24 centimetri e un peso di 5 chilogrammi. Il particolare del ritrovamento scompare nella seconda edizione del libro per riapparire nel 1962, quando il padre di Anna è ormai scomparso da tre anni.

Nei resoconti dell’epoca non è mai menzionato il reperto e la figlia di Mitchell-Hedges non compare nemmeno nelle fotografie. La realtà, per quanto cruda possa essere, pare essere quella propinata dalla ricercatrice Jane Maclaren Walsh: Mitchell-Hedges avrebbe acquistato il manufatto dall’antiquario londinese Sotheby nel 1943 per poi regalarlo alla figlia. Mitchell-Hedges giustificò l’accaduto asserendo di aver “ricomprato” il teschio dopo che era stato venduto per leggerezza dal figlio di un amico al quale l’aveva affidato prima di intraprendere un lungo viaggio. In seguito, grazie alle affermazioni esternate dalla famiglia Mitchell-Hedges e mai corroborate da dati di fatti verificabili, il teschio di cristallo innescò, assieme a reperti similari di cui ci occuperemo prossimamente, una serie di congetture che trovarono terreno fertile in quel frangente storico che sappiamo importante per gli OOPArt.

Nonostante le controversie circa il rinvenimento, il teschio di cristallo Mitchell-Hedges rimane un reperto d’eccezione per la metodologia di realizzazione. Il manufatto fu analizzato una sola volta, nel 1970, presso il laboratorio Hewlett-Packard di Santa Clara in California: qui, dopo essere stato immerso in una soluzione di fenilcarbinolo ed esposto alla luce, fu possibile determinare che il cranio e la mandibola appartenevano allo stesso blocco di quarzo. L’incisione senza l’uso di utensili metallici (per l’evidente mancanza di solchi) avvenne senza tenere in conto l’asse naturale del cristallo, una tecnica di lavorazione che avrebbe ridotto notevolmente il rischio di frantumazione. Oggi i cristalli sono lavorati seguendone l’asse e assecondando la struttura per evitare fratture, ma gli antichi costruttori crearono il teschio modellando il cristallo senza seguire questa procedura.

L’esperto Frank Dorland ipotizzò una lavorazione con punte di diamante e polvere abrasiva di silicio: intere generazioni di abili artigiani avrebbero lavorato al progetto per almeno trecento anni. La figlia di Mitchell-Hedges negò il permesso di sottoporre a successivi accertamenti l’artefatto di proprietà; dalla sua morte, avvenuta nell’aprile 2007, il prezioso manufatto è custodito dall’amico Bill Homann, cultore di arti marziali, convinto che il teschio di cristallo, per la capacità di far fluire e gestire l’energia, possa contribuire all’equilibrio mentale, fisico ed emozionale.

La datazione con il metodo del radiocarbonio non permette di andare oltre poiché limitato al materiale organico rinvenuto con il teschio. Non esiste metodologia affidabile per datare il cristallo di quarzo, o quarzo ialino, uno dei più comuni minerali della crosta terrestre, la cui formazione può risalire a milioni di anni fa: ha infatti una struttura che non subisce mai cambiamenti.

Fin dall’antichità il cristallo di rocca era considerato una pietra magica, capace tra l’altro di portare la pioggia, mitigare la sete e rendere feconda la donna. Non per niente in Egitto il “terzo occhio” di quarzo sulle fronti dei defunti conduceva l’anima sulla strada per l’eternità. Nei depositi del Paleolitico Superiore sono stati rinvenuti monili con funzioni protettive che attestano l’uso di questo materiale da parte dell’uomo preistorico. In qualche modo i nostri antenati conoscevano le peculiarità dei cristalli di quarzo, oggi largamente utilizzati negli apparati elettronici per le proprietà piezoelettriche.

Se il teschio è stato rinvenuto a Lubaantun (dove sono state trovate decine di miniature in ceramica con sembianze umane o zoomorfe, che si ritiene possano essere state usate in rituali legati alla cristalloterapia), potrebbe risalire al periodo tardo classico attestato al IX secolo d.C., ma gli archeologi sono concordi sul fatto che l’architettura del sito non rispecchi per niente il modello convenzionale Maya per l’assenza d’incisioni, di stele, di strutture residenziali e cumuli sulle piattaforme.

Gann, Mitchell-Hedges e Childress hanno evidenziato alcune imbarazzanti somiglianze tra Lubaantun e Machu Picchu e non si può escludere che il sito sia stato fondato nel primo millennio a.C. da tribù provenienti dal Sud America. Lubaantun può essere allora considerata una delle città più antiche dell’America e i suoi abitanti, di cui nulla sappiamo, potrebbero essere stati i depositari di una tecnologia scomparsa che stentiamo tuttora a comprendere.

Leggenda o folclore?

Nick Nocerino

Dopo aver discusso del teschio di Michell-Hedges, incentriamo la nostra attenzione su altri simili manufatti, tre custoditi in strutture museali (British Musem, Musée de l’Homme e Smithsonian Institute) e altrettanti in collezioni private (quelle di Jo-Ann Parks, Nick Nocerino e Norma Redo). È pur vero che le cronache registrano il rinvenimento di altri teschi, soprattutto negli ultimi trent’anni, ma spesso si è trattato di conclamati casi di truffa: qualcuno voleva avvalorare la tesi dell’esistenza dei fantomatici 13 teschi per dar credito a una leggenda Maya che, per quanto ne sappiamo, non ha alcun riscontro nella mitologia del Mesoamerica.

Si tratterebbe in sostanza di folclore inventato di sana pianta, come dice l’antropologa Jane MacLaren Walsh del Smithsonian’s National Museum of Natural History, che in un articolo apparso sulle pagine del bimestrale “Archaeology” (Vol.61, nr.3, maggio/giugno 2008) afferma anche che i teschi di cristallo “dal punto di vista stilistico o tecnico hanno ben poco a che fare con qualunque raffigurazione veramente precolombiana di teschi, che sono un motivo importante nell’iconografia mesoamericana”. Inoltre non ci sono prove documentate dell’esistenza dei teschi prima del XIX secolo, quando cominciò la compravendita di tali “opere” di presunta origine precolombiana.

Tralasciando le stravaganti affermazioni circa l’asserita provenienza da Atlantide di questi teschi “curativi”, in questa sede ci limiteremo obiettivamente a ricostruire, per quanto possibile (non potendo rivestire la massima fiducia sull’attendibilità di quanto dichiarato dagli scopritori) la storia di questi manufatti.

Un teschio ballerino

Eugène Boban

Il teschio del British Museum (che potrebbe essere una copia ben riuscita del Mitchell-Hedges), scultura a grandezza naturale di un cranio umano derivante da un blocco di cristallo di quarzo, fu acquistato nel 1897 da Tiffany and Co. di New York per 950 dollari. Prima di giungere al museo londinese il teschio era passato di mano diverse volte e una ricerca negli archivi ha permesso di risalire a Eugène Boban, un antiquario francese che lo acquistò a Parigi tra il 1878 e il 1881; Boban cercò di piazzarlo al Museo Nazionale del Messico nel 1885 ma qui il reperto fu respinto come manufatto moderno e il francese denunciato per frode da Leopoldo Batres (suo complice nell’affare, non esitò a incolpare il socio). Tuttavia l’anno dopo il teschio di cristallo fu acquistato dal gioielliere di New York, per finire più tardi nella collezione del museo.

È curioso costatare che Boban ebbe a che fare anche con il teschio oggi custodito al Musée de l’Homme di Parigi (alto 4,5 cm e con un peso di appena 6 chilogrammi, fu donato all’istituto nel 1878 da Alphonse Pinart, che lo aveva acquistato, come accennato, dall’antiquario). Nella seconda metà del XIX secolo è d’altronde attestata la produzione di numerosi falsi, acquistati dalle istituzioni europee pur essendo la conoscenza dell’arte precolombiana assai scarsa per mancanza di sistematici scavi archeologici. Stando ad alcune controverse testimonianze, il teschio del museo londinese avrebbe anche la deprecabile abitudine di muoversi all’interno della teca: c’è chi sostiene che per tale ragione sarebbe stato addirittura rimosso ma ciò non corrisponde al vero. Il teschio della Smithsonian Institution, del peso di più di 30 chilogrammi, è stato donato nel 1992 da un anonimo che nella lettera di trasmissione asseriva di averlo acquistato a Città del Messico una trentina d’anni prima.

Anche questo teschio di quarzo, come quello conservato a Londra, appare stilisticamente anomalo se comparato con le antiche raffigurazioni del Mesoamerica (le teste di morti azteche e tolteche erano scolpite in basalto, ricoperte di stucco e quindi dipinte: appese a pareti o altari, oppure scolpite in bassorilievi, pur risentendo di un intaglio primitivo sono più naturali dei teschi di cristallo. Nella cultura mixteca i crani, che potevano essere fabbricati anche in oro, sono caratterizzati da particolarità intatte e realistiche del volto.

I Maya, infine, scolpivano teschi, raffigurati di profilo, in rilievo su pietra calcarea), soprattutto per una minor attenzione esecutiva dei denti. “Max”, il teschio dei coniugi Jo Ann e Carl Parks, sarebbe stato rinvenuto in Guatemala negli anni Venti del secolo scorso. L’avrebbero ricevuto nel 1980 dal guaritore tibetano Norbu Chen, che a sua volta ne doveva il possesso a uno sciamano. Peccato non ci sia nulla a documentare il racconto dei Parks.

È così chiamato perché Jo Ann Parks avrebbe ricevuto tale informazione venendo in contatto telepatico col manufatto. “Sha Na Ra”, quello di proprietà di Nick Nocerino (curioso personaggio televisivo e poi investigatore dell’occulto), sarebbe stato scoperto nel 1959 in Messico, sulle rive del Balsas, un corso d’acqua che attraversa lo stato del Guerrero, applicando i principi dell’archeologia “psichica”, la capacità di localizzare antichi reperti grazie a un non meglio specificato “potere mentale” che entra in connessione con il luogo di sepoltura. Chiaramente, nessuno era presente al momento dell’importante rinvenimento.

Nick asserisce che sarebbe stato il teschio stesso a comunicargli di chiamarsi Sha Na Ra. E per chiudere questa breve carrellata c’è il manufatto di Norma Redo che si trova a Città del Messico e pare sia in possesso della famiglia dal 1840.

Analisi e polemiche

Cristallo di rocca

Nel 1996 i teschi del British Museum e della Smithsonian Institution sono stati messi a confronto con alcuni artefatti di cristallo d’indiscutibile origine precolombiana, tra cui un calice di cristallo di rocca trovato a Oaxaca (e tuttora conservato al locale Museo de las Culturas) nonché artefatti dei nostri tempi. Circolò la voce che anche i teschi di Nocerino e della Parks (effettivamente giunti in quella circostanza al British Museum) fossero stati analizzati e destò scandalo che gli esperti non avessero divulgato i relativi risultati. Jo Ann Parks arrivò a dichiarare che gli studiosi dovevano aver scoperto qualcosa che non volevano rendere pubblico, tesi ripresa e avvalorata da una nota trasmissione televisiva italiana. In realtà il British Museum, da sempre, non fornisce valutazioni su artefatti provenienti da collezioni private e questo era, fin dall’inizio, a conoscenza dei proprietari di Max e Sha Na Ra.

Le analisi sui manufatti investigati dai due istituiti in collaborazione con il Dipartimento di Scienze della Terra e Geografia della Kingston University del Surrey, hanno riscontrato solamente tracce che evidenziano lavorazioni recenti con un utensile rotante e l’uso di abrasivi di notevole durezza (plausibili con strumentazione disponibile in Europa già nella seconda metà dell’Ottocento) su roccia cristallina proveniente dal Brasile o dal Madagascar (la spettroscopia ha evidenziato residui di clorito di ferro con una concentrazione non plausibile con il Messico).

Alla fine del 1700 i francesi importavano questo minerale dal Madagascar mentre i tedeschi fecero altrettanto con quello brasiliano nei primi decenni del secolo scorso. Sul teschio della Smithsonian è stato rinvenuto, in una cavità nella superficie del cranio, un deposito di carburo di silicio, un ben noto abrasivo sintetico utilizzato fin dalla metà del XX secolo. È stato ipotizzato che abili artigiani tedeschi dell’epoca avrebbero posseduto le qualità per produrre tali manufatti.

William Henry Holmes

Queste disarmanti conclusioni hanno rafforzato lo scetticismo di chi ha sempre considerato falsi questi manufatti, come l’archeologo-antropologo e geologo William Henry Holmes che già nel 1886 aveva denunciato, dalle pagine di Science, il commercio di falsi reperti precolombiani a Città del Messico. Erano gli anni di Eugène Boban che, dopo aver vissuto in Messico commerciando manufatti archeologici di ogni genere, ritornò in Francia per presentare un paio di teschi all’Exposition Universelle di Parigi nel 1867 e tre anni dopo aprire un negozio di antichità; prima di tornare nel Nuovo Mondo parte della sua collezione andò all’esploratore-etnologo Alphonse Pinart, che a sua volta la donò nel 1878 al Trocadero (l’attuale Musée de l’Homme): tra i reperti c’erano tre teschi di cristallo.

Alla luce delle poche analisi scientifiche finora eseguite, nell’impossibilità di determinare una datazione certa e in mancanza di documenti attendibili e verificabili, il nostro giudizio circa l’autenticità dei teschi di cristallo dev’essere necessariamente severo. Il fascino dei teschi è innegabile e chi si è trovato di fronte a simili artefatti è rimasto fortemente impressionato, ma ciò non cambia le carte in tavola. Ipotesi e teorie astruse si scontrano inevitabilmente con la mancanza di prove.

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