Il resoconto della creazione, nell’antico Egitto, è narrato in quattro versioni diverse. La più completa e conosciuta di queste, sviluppatasi nel centro di Eliopoli, vede per protagonista Amon o Atum, poi associato al dio del Sole.
Ne “L’enigma delle origini della razza umana” (Cerchio della Luna, 2011) così scrivevo a proposito delle altre tre versioni della creazione: “…A Menfi, capitale dell’antico Egitto, il dio venerato era Fta o Ptah, ‘padre e madre di tutti gli dèi’, considerato anche protettore degli artigiani. Amon in questo caso era appena un gradino sotto Ptah. Nella città di Ermopoli invece il culto era tutto dedicato a Thoth, dio lunare ma anche della saggezza e della scrittura (e per questo chiaramente protettore degli scribi), che era rappresentato con la testa di ibis e associato all’animale sacro del babbuino. Per ciò che concerne il mito della creazione, a Ermopoli si credeva fosse merito del dio Nefertem, protettore della vegetazione. Infine ci resta da dire qualcosa circa il centro di Esna: qui la figura principale era quella del dio Knufi o Cnum, dalla testa di montone. La divinità aveva creato il genere umano plasmando argilla sulla sua ruota da vasaio. Sulle pareti del tempio di Esna è incisa questa versione della creazione, con riferimento anche a una dea di nome Neith, venerata nella città di Sais.”
Amon, che si distingueva per l’aspetto antropomorfo (il corpo di un uomo e la testa di un falco), emergeva dalle acque primordiali di Nun, un vuoto senza forma, ma dal suo seme fece nascere Shu (dio dell’aria) e Tefnut (dea dell’acqua), la cui unione portò in frutto Geb, dio della Terra, e Nut, dea del Cielo. I due diedero alla luce due maschi (Osiride e Set) e due femmine (Iside e Nefti).
In tutto, queste nove divinità, formavano la “Grande Enneade di Eliopoli”, personificazione della bellezza, della magia e del potere. Non certo della concordia, perché questi eccelsi divini erano soliti litigare tra loro, soprattutto Set che nutriva insana gelosia per Osiride e questo provocò una lotta intestina tra loro. Iside si ergerà protagonista in questo duello, salvando il marito Osiride, ucciso e poi smembrato dal germano: con l’intervento di Anubi, dio imbalsamatore e guida delle anime dei defunti (rappresentato con la testa dello sciacallo), la donna riunì i frammenti del consorte.
In ogni modo, a vendicare Osiride sarà il figlio Horus (raffigurato dalla figura del falco) che, dopo alterne vicende, sarà scelto da Amon Ra quale legittimo erede sulle terre del Basso Egitto, mentre il dio del tuono e delle tempeste Set sarà esiliato nel deserto dell’Alto Egitto. Osiride, da quel momento, diventerà dio dei Morti.
Questo racconto mitologico spiega anche la ragione per cui i faraoni volevano essere la personificazione terrena di Horus, con la possibilità di trasformarsi, alla morte, in Osiride.
Il rito dell’apertura della bocca, che i sacerdoti egizi eseguivano sulle mummie dei sovrani, serviva proprio a mutarli nella divinità dei morti. Horus, Thot, Anubi e Maat, nel loro piccolo, facevano parte di quella che era definita la “Piccola Enneade”.
Il calendario civile degli antichi egizi era composto di trecentosessantacinque giorni, suddiviso in tre stagioni (Akhet – inondazione, Proye – inverno e Shomu – estate), ognuna di quattro mesi. Un mese conteneva trenta giorni.
I cinque giorni necessari per concordare il calendario civile con l’anno solare, erano aggiunti prima del capodanno. In questi giorni supplementari, conquistati da Thot durante una partita a senet (un antico gioco da tavolo) con la Luna, sarebbero nati Iside, Osiride, Nephthys, Seth e Horus. Egizi.
Va attribuito agli astronomi egizi il merito di aver inteso che l’anno era di poco superiore ai trecentosessantacinque giorni.
Oltre al calendario solare, in Egitto era in uso anche un calendario lunare risalente al 3000 a.C. circa e uno sotiaco, incentrato sul ciclo di Sirio, la stella della costellazione del Cane consacrata a Iside.
Per quel che riguarda le costellazioni, a parte quanto già scritto, qualche altra informazione proviene da orologi stellari del II millennio a.C., in cui sono raffigurati i gruppi di stelle di Orione, dell’Orsa Maggiore e del Drago, con riferimenti anche a Sirio.
La costellazione di Orione era considerata l’anima di Osiride, governante dei cieli e dell’Oltretomba, e può essere assimilata all’odierna costellazione del Toro.
Sul soffitto del sepolcro di Senmut (sovrintendente di palazzo e tutore della figlia di Hatshepsut), a Deir el Bahari, sono rappresentati Sirio, Orione (con le tre stelle della cintura), le Iadi (stelle della costellazione del Toro) e un’altra figura, che potrebbe essere la nebulosa di Orione. (Una nebulosa è una chiazza luminosa estesa, a volte formata da masse gassose, visibile anche a occhio nudo. Quella indicata nel testo dovrebbe essere la Grande Nebulosa di Orione, che si trova al di sotto delle stelle della cintura.)
Spesso si fa confusione sul sepolcro di Senmut, poiché oltre alla tomba qui indicata, è stato trovato un tempio funebre a lui dedicato. In ogni modo, le spoglie mortali di questo governatore non sono state ancora rinvenute, tanto da suggerire che esista un terzo sepolcro. Il nome di Senmut fu cancellato durante il regno di Thutmosis (per ritorsione nei confronti di Hatshepsut) o nel periodo amarniano. Inoltre, appaiono quattro dei cinque pianeti visibili, solitamente indicati in quest’ordine: Giove, Saturno, Marte (mancante), Mercurio e Venere.
Giove era assimilato a Horus, nella sua classica rappresentazione sulla barca solare, con una stella in testa. Anche Saturno, denominato stella orientale, doveva essere collegato a Horus, ma rimane il dubbio, derivante da un’altra raffigurazione, che il dio di questo pianeta fosse Ptah. Marte si chiamava Horus all’orizzonte, mentre Mercurio figurava Seth col nome di servitore del nord. Infine Venere, considerato stella che annuncia il mattino, i cui legami con esseri divini non appare ancora chiaro.
Robert Bauval, interpretando i testi funerari rinvenuti nella piramide di Unas (V dinastia, 2375-2345 a.C.), pone l’attenzione su alcune frasi sibilline in cui il sovrano afferma che il suo spirito è una stella, probabilmente Orione, come fanno intendere altri riferimenti.
I testi delle Piramidi, contenuti nei complessi di Unas e Teti, sono i più antichi testi con valenza religiosa che conosciamo. Si tratta di geroglifici che tappezzano le pareti di queste piramidi, contenenti formule propiziatorie per il viaggio ultraterreno dei faraoni, che si fanno comunemente risalire al mitico Primo Tempo e quindi più antichi di quelli del Libro dei morti). Da questi testi emerge una primordiale religione stellare in cui i sovrani rinascevano nel nome di Osiride, associato a Orione, il Duat: si credeva, infatti, che l’anima del defunto raggiungesse le stelle di Osiride.
Orione era considerata la dimora di Osiride e le piramidi di Giza potrebbero essere, secondo Bauval, una rappresentazione terrena delle stelle di questa costellazione (Zeta, Epsilon e Delta), con la Via Lattea rappresentata dal Nilo, la cui inondazione annuale, annunciata dalla levata di Orione, coincideva con l’apparizione in cielo di Sirio, associata a Iside. (Le stelle, solitamente, non sono distribuite uniformemente sulla volta celeste, ma la Via Lattea è un’eccezione, anche se le stelle che la formano non sono visibili a occhio nudo.)
Gli Egizi basavano il calendario sulla levata eliaca di Sirio (il momento in cui la stella sorgeva all’alba), poiché coincideva con l’arrivo delle inondazioni del Nilo e del solstizio; osservazioni per determinare il periodo di non visibilità (settanta giorni) della stella sono attestate fin dal 2800 a.C.
Iside, denominata anche Sothis, assieme a Osiride e Horus formava una trinità: gli egizi giustificavano i settanta giorni di assenza della stella con il passaggio di Iside attraverso l’oltretomba (duat). Non è un caso che la durata del processo di mummificazione sia proprio di settanta giorni.
L’origine dell’imbalsamazione era considerata divina ed era legata al culto di Horus, figlio di Osiride e di Iside. I corpi dei regnanti egiziani, a parte la mummificazione, si sono però conservati, e così sono giunti fino a noi, anche per il particolare clima della zona. Un corpo di specialisti procedeva all’imbalsamazione, estraendo il cervello dalle narici con un uncino, e al suo posto era introdotto un composto di bitume che tendeva a indurirsi. Gli occhi erano sostituiti da pupille di smalto. Anche l’intestino e le viscere erano estratti e dopo un particolare procedimento, inserite col cervello e il fegato in canopi adagiati di fianco al defunto. Il ventre, dopo essere stato pulito con vino di palma e aromaticamente seccato, era riempito con mirra e segatura. Il corpo era immerso in un composto di natron per settanta giorni, che provocava l’attaccamento della pelle alle ossa; infine si avvolgeva il defunto con più strati di bende impregnate di resina.
Con questo e altri particolari rituali, come la cerimonia dell’apertura degli occhi e della bocca, si realizzava la rinascita stellare dei sovrani, la cui origine pare predinastica e si perde necessariamente nel mito della rinascita di Horus in Osiride. Per la valenza di reminiscenza di questo cerimoniale (per le “apparentemente fondate analogie fra la strumentazione utilizzata dagli Egizi e quella rianimatoria usata in epoca moderna, che fanno pensare a tecniche rianimatorie avanzate, il cui significato reale è andato perduto nel tempo, ma si è conservato pressoché intatto nella simbologia”), si veda l’articolo “Gli Egizi e la cerimonia dell’ “apertura della bocca”: rito o reminiscenza?” di Fabio Marino, pubblicato sulla rivista digitale gratuita Tracce d’eternità, numero 17.
Secondo Il Libro dei Morti, gli Egizi credevano in una vita ultraterrena, con la resurrezione dei regnanti nella costellazione di Orione (dopo aver attraversato la Via Lattea/Nilo). Le piramidi dovevano riprodurre le stelle della costellazione di Orione, ma non tutte sono state rappresentate sulla piana di Giza: questo è purtroppo il grande limite della teoria propugnata da Bauval, che immagina un progetto risalente al 12.000 a.C., ancora in fase di realizzazione nel 2.500 a.C. (i corridoi e i condotti d’aerazione, infatti, a quell’epoca puntavano verso alcune stelle, comprese quelle di Orione).
Ben più articolata la ricerca di Giulio Magli in Misteri e scoperte dell’archeoastronomia, secondo cui tutti i templi egizi erano orientati astronomicamente, nel senso che puntavano al sorgere e al tramonto del Sole e di alcune stelle.
La costruzione del tempio di Amon-Ra a Karnak (l’antica Tebe), risalente all’inizio del II millennio a.C., rileva un orientamento al tramonto del Sole al solstizio d’estate.
Per l’astronomo Norman Lockyer era evidente, in conformità a questi presupposti, che anche la parte terminale del complesso potesse essere un osservatorio astronomico, ma commise l’errore di sottovalutare che la costruzione dei templi avvenisse anche tenendo conto della direzione del Nilo. A parte questo svarione, anche il collega Gerald Hawkins confermò quanto intuito da Lockyer anni prima.
Anche i magnifici templi di Abu Simbel, prima di essere ricollocati per la costruzione della diga di Assuan, si prestavano a interpretazioni simili poiché orientati originariamente alla levata delle stelle della Cintura di Orione. Fra l’altro, il 22 febbraio e il 22 ottobre, i raggi del Sole raggiungono le cripte di almeno tre sovrani, tralasciando naturalmente di illuminare il dio dei morti Ptah.
In numerosi altri templi orientati (tra cui quelli di Abydos, Hatshepsut, Edfu e Dendera), ma anche nella Pietra di Palermo (un frammento di lastra oggi conservata al Museo Salinas di Palermo, che ricostruisce le fasi più remote della dinastia egiziana poiché reca impresso l’elenco dei sovrani della I, II, III, IV e V dinastia, in connessione con i periodici straripamenti del Nilo; il documento risale probabilmente alla metà del III millennio a.C.; altri piccoli frammenti di questa lastra sono custoditi al Petrie Museum of Egyptian Archaeology di Londra e al Museo Egizio del Cairo) è illustrato il rito del Tendere un cavo, durante la quale il sovrano è raffigurato di fronte alla dea Seshat (la consorte di Thot, associata alla scrittura ma anche alla sapienza, poiché comunemente indicata come l’artefice del progetto necessario per la costruzione di nuovi templi) ed entrambi tengono in mano gli estremi di una corda, intenti a ricercare il misterioso Ak, spesso interpretato come l’orientamento da assegnare alla costruzione rispetto ai punti cardinali.
La cerimonia, ammesso che avesse anche una valenza pratica, come pare di capire, conteneva senz’altro un valore simbolico connesso a un rito religioso. Resta che Seshat, chiamata anche Signora delle stelle, è rappresentata con una pelle di leopardo e quelle macchie nere sulla pelle, qualche volta, sono raffigurate come stelle; il copricapo della dea è sormontato da un fiore stilizzato con una stella a sette punte (appoggiata sotto un paio di corna rovesciate, per alcuni un simbolo della luna crescente), in cui i petali, come suggerito dal direttore dell’Instituto de Astrofísica de Canarias Juan Antonio Belmonte, potrebbero essere le corrispondenti stelle dell’Orsa.
È interessante scoprire l’origine della rappresentazione della volta celeste, così come la immaginavano gli Egizi.
Ra, stancatosi di regnare sulla Terra, prese la decisione di salire in cielo. Nun gli venne in soccorso chiamando Nut e trasformandola in una mucca. Ra salì sulla mucca provocando lo spavento di Nut che, per reazione, si alzò sulle zampe posteriori. A questo punto intervenne Shu che la sostenne.
Ecco perché il cielo è rappresentato dall’immagine di una vacca e, sotto il suo ventre, prendono posto le stelle. In quello stesso spazio, così voluto casualmente dagli dèi, naviga la splendida barca solare di Ra, che attraversa il cielo da oriente a occidente.
D’altronde, le conoscenze astronomiche che dovevano possedere nelle terre del Nilo, per quanto finora appurato dagli esperti, sono desumibili esclusivamente dalle raffigurazioni; non abbiamo, infatti, altro tipo di documentazione (anche se non si può escludere che gli obelischi avessero funzione di meridiana).
E queste raffigurazioni – decani, stelle singole, costellazioni, orologi stellari e solari, effemeridi, fasi lunari e zodiaci – sono quelle incise sui coperchi dei sarcofagi dell’Antico e del Medio Regno (2.850 a.C. – 1.786 a.C.), scolpite sui soffitti dei templi (dal 300 a.C. in poi) e vergate sui papiri (dal 200 a.C. in poi, con innegabili influenze del mondo ellenico).
Tra le numerose rappresentazioni effigiate sulle volte dei luoghi sacri, la più famosa è sicuramente quella concernente lo zodiaco egizio/babilonese del tempio di età tolemaica di Esneh a Dendera (in arabo “La città della dea”), dedicato al culto di Hathor, dea della terra e moglie di Horus. La località, fra l’altro, è nota anche per le “lampade”, raffigurazioni incise negli anfratti del tempio; di queste immagini (create intagliando lastre di pietra), scoperte nella metà del XVIII secolo dall’archeologo Auguste Mariette, scrivo diffusamente in “OOpart. Gli oggetti impossibili del nostro passato” (Cerchio della Luna Editore, 2012).
La costruzione del tempio fu iniziata sotto il regno dell’ultimo regnante di origine egizia, Nectanebo II, nel IV secolo a.C., proseguì (non senza variazioni di rilievo rispetto al progetto originale) e terminò nel 21 a.C.
Il tempio che custodisce lo zodiaco è orientato con la levata eliaca di Sirio. D’altronde, non c’è dubbio circa la connessione tra questo luogo sacro, consacrato a Hator, e la stella Sirio, riconoscibile tra le corna della vacca (l’allineamento rappresentato nello zodiaco non coincide con la realtà perché Sirio non è mai presente nell’emisfero Nord, ma sorge a Est-Sud-Est).
Lo zodiaco a bassorilievo che decora il soffitto di arenaria della Grande sala ipostila, è sicuramente di epoca romana; quello che possiamo ammirare è comunque una copia: l’originale fu rimosso all’inizio del XIX secolo e oggi è esposto al Museo del Louvre a Parigi.
La raffigurazione fu inizialmente datata al 2.500 a.C. da Joseph Fourier, che si basò sulla configurazione astronomica rappresentata. Tuttavia, Jean-François Champollion scoprì che il rilievo circolare riportava i nomi di alcuni imperatori romani, così da poterlo correttamente datare a quell’era, come recita d’altronde la relativa iscrizione.
Stando a questa iscrizione, la costruzione iniziò il 16 luglio 54 a.C., corrispondente alla levata eliaca di Sirio (quasi in contemporanea con quella di Venere), e terminò nell’agosto 21 o 20 a.C. Éric Aubourg, sulla scorta della posizione nello zodiaco dei cinque pianeti visibili, è propenso a collocare la realizzazione dello zodiaco tra giugno e agosto del 50 a.C., anche in considerazione di un’eclisse di Sole avvenuta il 7 marzo del 51 a.C. Senza dimenticare che proprio nella primavera di quell’anno morì Tolomeo XII.
La verità, come capita spesso, sta in mezzo: pur se riprodotto in età tolemaica, lo zodiaco riproduce il cielo come doveva apparire nel III millennio a.C., con chiare connessioni con analoghe raffigurazioni della Mesopotamia.
Qualche studioso, utilizzando programmi in grado di ricreare il cielo nell’antichità, si è azzardato a datare lo zodiaco di Dendera al 4.500 a.C., ancor prima dell’inizio della civiltà egizia.
Nello zodiaco, un bassorilievo in pietra arenaria, oltre alla rappresentazione dei dodici simboli, si riconoscono cinque pianeti, la Luna, Sirio, Orione, le tre costellazioni del Nord (quelle conosciute all’epoca) e i simboli dell’Est e dell’Ovest. La rappresentazione astronomica è retta da otto divinità antropomorfe (con testa di falcone) e da quattro divinità in corrispondenza dei punti cardinali; esternamente si riconoscono trentasei decani egizi, disposti in senso orario.
Camillo Trevisan, professore associato in Disegno dell’Università di Venezia IUAV, prendendo in considerazione altre realizzazioni architettoniche dell’Antico Egitto, è convinto che gli autori di queste e altre rappresentazioni astronomiche propongano “…soluzioni a volte geniali nell’intuizione ma quasi sempre assai trascurate nella realizzazione… nello zodiaco di Dendera la posizione assai decentrata della costellazione del Cancro, è con ogni probabilità dovuta alla ‘necessità’ di allineare Giove con Marte, non potendolo però sovrapporre a Mercurio e dovendo mantenere equivalenti le grandezze delle figure che identificano i pianeti.”
Lo zodiaco, che dovrebbe mostrarci la sfera celeste nell’antichità (pur con evidenti deformazioni, per esempio lo schiacciamento che interessa alcune costellazioni), in realtà si serve della disposizione degli astri per giustificare l’orientamento di Sirio con il Nord.
Per gli autori non deve essere stato facile rappresentare le dodici costellazioni sul piano orizzontale del soffitto, anche perché sei di queste, quelle rivolte verso Sud, dovevano in qualche modo fare riferimento all’eclisse di Sole avvenuta all’equinozio d’autunno del 62 o 61 a.C., mentre le rimanenti costellazioni, pure legate a una seconda eclissi avvenuta nello stesso periodo, sono rivolte a Nord solamente per non sovrapporsi con le altre. Questa necessaria rappresentazione pone sia Sirio sia Orione a Nord, mentre l’esatta posizione dovrebbe essere a Sud.
Per queste ragioni, lo zodiaco di Dendera emerge più con connotazioni artistiche che scientifiche, perché la volontà degli artisti, come accennato, è quella di indicare l’esatta direzione della stella Sirio durante le eclissi di Sole, come pare dimostrare anche per la posizione in cui sono inserite le iscrizioni geroglifiche. Trevisan, nella sua analisi dello zodiaco (tra tutte, quella che ci appare più convincente), termina scrivendo che “…l’impianto complessivo della rappresentazione indica chiaramente una disposizione non casuale delle figure che identificano gli astri e le costellazioni. Manca tuttavia l’evidenza inoppugnabile, documentale, sia dell’esistenza di un metodo scientifico di costruzione della rappresentazione; sia delle caratteristiche del metodo stesso; sia, infine, di quali siano stati gli istanti scelti per ‘congelare’ la volta celeste sulla pietra.”
A questa lucida disanima, dobbiamo aggiungere che i segni zodiacali di Dendera sono rappresentati con pittorica certamente d’origine babilonese. Poiché lo zodiaco di Dendera, come già accennato, ricalca analoghe raffigurazioni celesti del III millennio a.C., dobbiamo convenire che gli artisti del I secolo a.C. abbiano cercato di realizzare l’opera traendo spunto da reminiscenze di conoscenze astronomiche provenienti dalla Mesopotamia, con ogni possibile distorsione che ciò comportava. Certamente non c’era più la sapienza portata in Egitto, due millenni prima, dai nomadi di Nabta Playa.