Le indagini sul DNA mitocondriale di alcuni esemplari di Neandertal, oltre a restituirci una specie soggetta a molteplici mutazioni genetiche nel corso dell’esistenza, indicherebbero differenze così notevoli da suggerire che questa razza non aveva nulla da spartire con la nostra, escludendo quindi l’ipotesi di ibridazione.
Eppure nel 2010 i ricercatori del Max Planck Institute for Evolutionary Antropology di Lipsia, sequenziando il genoma del Neandertal (ricavano da frammenti di DNA non contaminato proveniente soprattutto dalle ossa fossili di tre femmine rinvenute in un anfratto della Croazia) e confrontandolo con quello di cinque individui di sapiens attuali, hanno scoperto che le specie si sono incrociate: lo dimostra la presenza di una minima variabile percentuale di DNA identico.
L’unica eccezione pare essere negli africani, con un patrimonio genetico che non ha nulla della razza estinta. Secondo Svante Paabo, direttore del dipartimento sull’evoluzione dell’istituto, le due specie “…s’incrociarono in Medio Oriente fra 100.000 e 50.000 anni fa”, prima che i sapiens si diffondessero in Asia e Melanesia (una regione dell’Oceania).
Eppure lo scheletro di bambino rinvenuto nel 1998 a Legar Velho in Portogallo, che presenta caratteristiche anatomiche intermedie tra le due specie, dimostrerebbe un’ibridazione anche più recente. Gli studi genetici sul fanciullo, che fu seppellito avvolto in una pelle dipinta con ocra 24.500 anni fa (in un’epoca in cui il Neandertal doveva già essere estinto da migliaia di anni), suggeriscono un padre Neandertal e una madre sapiens.
Il professor Joao Zilhao dell’Università di Barcellona, in uno studio pubblicato nel 2002 sulle pagine di “Athena Review”, ci ricorda però che “…i risultati del DNA contribuiscono poco alla nostra comprensione di ciò che è accaduto in quel periodo critico tra 50.000 e 25.000 anni fa, durante il quale il fenotipo di Neanderthal è scomparso”.
Gli esemplari di Neandertal rinvenuti soprattutto in Spagna, Portogallo e Francia, indicano che proprio in quest’area geografica avvennero gli ultimi importanti stanziamenti prima dell’estinzione. L’ipotesi della selezione naturale, pur avanzata in ambito scientifico, non chiarisce la scomparsa dell’ominide. Rimane il fatto come il movimento migratorio dei sapiens abbia pesantemente influito sulla sorte dei neandertaliani, tanto da costringerli ad abbandonare gli insediamenti precostituiti e cercare rifugio in zone sempre più aspre e inaccessibili.
Ron Pinhasi, in un recente studio pubblicato sulle pagine di “PNAS”, propone di retrodatare a 39.000 anni fa (anziché 30.000 anni fa) l’estinzione del Neandertal dalla regione settentrionale del Caucaso, in perfetta corrispondenza con l’arrivo dell’uomo moderno: nel sito archeologico di Mezmaiskaya Cave sono stati infatti rinvenuti gli ultimi probabili resti del nostro predecessore.
Neandertal era in fuga non solo verso sud ovest ma anche a nord, come suggerisce Ludovid Slimak dopo la scoperta in prossimità del circolo polare (a Byzovaya, Urali) di centinaia di strumenti litici dei neandertaliani, databili tra 31.000 e 34.000 anni fa, impiegati nella caccia ai mammut.
Poche migliaia di individui, il cui destino appariva già segnato, perderanno la battaglia per la sopravvivenza dopo aver abilmente domato, per migliaia d’anni, gli inquieti elementi della natura.
Gli incroci tra Homo sapiens e almeno due altre specie (Neandertal e Denisova) possono essere state favorite dalla permanenza in rifugi condivisi durante l’ultima era glaciale. È quel che pensano Chris Stringer del Natural History Museum di Londra e John Stewart della Bournemouth University in uno studio apparso su “Science” nel 2013, in cui discutono anche di migrazioni e interazioni umane avvenute nella parte meridionale dell’Eurasia.
Un pidocchio di passaggio Parliamo di pidocchi, per bocca del biologo Dale Clayton e dell’antropologo Alan Rogers dell’Università dello Utah: in uno studio pubblicato nel 2004 da “PLoS Biology”, ci raccontano che il Pediculus si diversificò geneticamente due milioni di anni fa, seguendo l’uscita di Homo erectus dall’Africa all’Asia.
La linea evolutiva di maggior successo del pidocchio rimase comunque quella che seguì l’uomo moderno in tutto il mondo, tranne in America, dove si fece largo un parassita geneticamente diverso che testimonia un qualche contatto di 25.000 – 30.000 anni fa tra Homo sapiens e un’altra specie oggi estinta. Il portatore di questo pidocchio potrebbe essere stato l’Homo erectus, che raggiunse l’Asia prima di noi.
L’uomo di Combe-Capelle Un’altra forma arcaica di Homo sapiens apparsa in Europa, oltre al Cro-Magnon, è quella del Combe-Capelle, i cui resti furono rinvenuti in Francia nell’omonima località.
Nonostante il ridimensionamento rispetto al Cro-Magnon, in conseguenza di una nuova datazione delle ossa che ne attesta la presenza solo a qualche migliaia di anni fa, questo nostro antenato arcaico, che raggiunse l’Europa dal Medio Oriente risalendo il corso dei fiumi o camminando tenendo a vista le coste forse già nel 40.000 a.C., ha le stesse caratteristiche del Brunn, i cui resti risalenti anche a 26.000 anni fa sono stati rinvenuti in alcuni paesi dell’est (per esempio in Romania, in Moldavia e in Russia), ma anche a Finale Ligure e nel Gargano.
Le caratteristiche del Brunn, il cui cranio più alto e più stretto rispetto a quello del Cro-Magnon è simile per molti aspetti all’odierno aborigeno australiano, suggeriscono un modello proto-mediterraneo che ha vissuto, come dimostrano le datazioni acquisite in altri siti europei, fino al Neolitico.
I resti di Kennewick Anche i resti quasi completi del cosiddetto Uomo di Kennewick di 9000 anni fa, rinvenuti nei pressi del fiume Columbia a Washington, potrebbero far parte di questa linea evolutiva del sapiens che, come sostiene l’antropologo James C. Chatters dell’Università di Washington, è caratterizzata da un cranio dolicocefalo.
Dello stesso avviso anche il collega Douglas W. Owsley del Museo Nazionale di Storia Naturale della Smithsonian Institution e l’archeologo Goran Burenhult dell’Università di Gotland.
L’antropologo Joseph Powell della University of New Mexico, dopo aver esaminare i resti di Kennewick e tenendo a mente anche le comparazioni craniometriche dei colleghi William White Howells della Harvard University e Tsunehiko Hanihara dell’University School of Medicine of Kitasato, ha sostenuto che ci sono maggiori affinità con i polinesiani e soprattutto con gli Ainu, una popolazione del Sud est asiatico discendente del primo periodo Jomon, rispetto al classico tipo eurasiatico.
Ciò potrebbe voler dire che anche in questo caso siamo in presenza di una deriva genetica, in quanto altri resti rinvenuti in America non presentano queste caratteristiche craniali, che fra l’altro non contraddistinguono i nativi americani.
Anche l’antropologo Douglas Owsley del Museum of Natural History at the Smithsonian Institution, fin dalla scoperta dei resti di Kennewick nel 1996, aveva sempre sostenuto una tesi analoga.