Dal VI millennio a.C. in Mesopotamia iniziarono a lasciare tracce importanti civiltà che ancor oggi vanno ricordate per le incredibili conoscenze. Ne abbiamo notizia dalle migliaia di tavolette d’argilla della biblioteca di Assurbanipal, rinvenute negli scavi di Ninive.
Queste conoscenze, poi andate perdute, erano prerogativa della classe sacerdotale dei Caldei, di cui scriveremo tra breve.
La Mesopotamia è l’unica località sulla faccia della terra in cui le civiltà nel corso dei millenni si sono succedute senza interruzioni di sorta. È quel che emerge dalle ricerche archeologiche ma sarà bene portare almeno un esempio: una città del periodo accadico risalente al III millennio a.C. conserva sotto le sue rovine almeno altre cinque differenti civiltà precedenti.
Mesopotamia significa “terra tra due fiumi” e quei corsi d’acqua sono il Tigri e l’Eufrate, che si snodano dalla Turchia al Golfo Persico. Nell’Antico Testamento col termine Aram-Nacharaim si intendeva la Siria tra i due fiumi, ovvero la porzione settentrionale della Mesopotamia.
Molte delle città-stato presenti in questo territorio subirono secondo il racconto della Bibbia la punizione di Dio perché gli uomini adoravano altri dèi. La Babilonia castigata dal Signore era lo specchio dei tempi, con 53 templi dedicati a diverse divinità e 55 cappelle in onore del solo dio Marduk; altre 300 cappelle erano riservate ad altrettante divinità della terra mentre addirittura 600 per quelle del cielo. Prima del decisivo avvento di Marduk, assimilabile in quello che sarà poi Zeus per i Greci e Giove per i Romani, tutte le altre divinità godevano di grande spazio, con cerimonie e processioni.
Quando nel XIX secolo in questa terra giunsero i primi archeologi (avventurieri o diplomatici), si trovarono di fronte a un panorama desolante: un immenso deserto con ampie zone paludose, intervallato da collinette che gli arabi definivano “tell”. Sotto queste collinette formate nel tempo con l’accumulo di detriti e sabbia portati dal vento, c’era la testimonianza di una grande civiltà, quella dei Sumeri, a cui dobbiamo l’invenzione della ruota e della scrittura. Però i primi abitanti della Mesopotamia non furono i Sumeri.
Per la sua conformazione, questa zona è stata sempre terra di passaggio poiché priva di barriere naturali. Gli stessi deserti non costituiscono un ostacolo insormontabile e numerose sono le piste carovaniere. Proprio dal deserto giunsero quasi tutte le etnie per ritrovarsi in questa bella pianura. Numerose le tribù semitiche che lasciarono traccia del loro passaggio: Accadi, Babilonesi, Amoriti, Assiri e Aramei. Si trattava di popoli nomadi che finirono per diventare sedentari e si unirono agli altri confondendosi negli usi e nei costumi.
Tutti contribuirono alla formazione di un’articolata e multiforme civiltà. La prima gente che pare sia giunta in Mesopotamia a Sumer fu quella denominata “il popolo dalla testa nera”, che non ha nulla a che fare con la stirpe semitica. Non conosciamo il luogo di provenienza di questi nomadi, ma l’assirologo Giovanni Pettinato, partendo dal presupposto che i Sumeri non fossero originari dell’Iraq per le diversità delle caratteristiche linguistiche e somatiche, in base ai testi rinvenuti proponeva tre ipotesi. La prima che questa gente provenisse dal sud-est dell’India, almeno per due motivi: l’appellativo di “teste nere” che si erano scelti e le similitudini tipologiche con gli indiani di questa zona. La seconda che provenissero dal nord, dalle zone del Caucaso, poiché ricrearono nella pianeggiante Mesopotamia il culto della montagna. Infine la terza ipotesi, quella più recente e intrigante ma purtroppo priva di riscontri oggettivi: la provenienza dall’Africa, anche in questo caso partendo dal nome “teste nere” per arrivare alla relazione tra la lingua sumerica e quella dei bantu dell’Africa centrale, entrambe di tipo agglutinante, cioè con parole costituite dall’unione di piccoli elementi non ulteriormente suddivisibili, con un significato proprio.
Gli scavi archeologici hanno evidenziato una precisa continuità nell’espansione delle prime città-stato, tanto da poter affermare che chi arrivò in seguito non riuscì ad imporre evidenti novità, soprattutto per quel che concerne l’espressione artistica e architettonica e tenendo nella giusta considerazione anche la ritualità legata ai culti religiosi.
C’è quindi un sottile filo che lega tutti questi popoli, tra la preistoria, l’età protosumerica (o periodo di Uruk) e sumerica. I caratteri dominanti sono sostanzialmente gli stessi, quasi a suggerire la mancanza di una lenta ma continua evoluzione. Indizi in tal senso si riscontrano dagli scavi effettuati a Uruk, che hanno permesso di documentare, nel periodo protosumerico denominato Ubaid, le offerte di pesci dedicate a un dio che è facilmente identificabile nella divinità poi adorata dai Sumeri, cioè Enki.
L’aspetto architettonico dei luoghi sacri, da semplici templi si trasformano poi in opere sempre più complesse, senza peraltro che ci siano modifiche all’originaria planimetria: un chiaro segnale di una sensata prosecuzione del medesimo disegno originario e di un comune credo religioso.
È stato dimostrato che l’agricoltura costituiva l’attività principale delle popolazioni della Mesopotamia mentre la caccia e la pesca rivestivano una minore importanza per il sostentamento. Eppure queste terre sono generalmente inospitali per la mancanza di abbondanti precipitazioni. La presenza dei corsi d’acqua, le cui piene sono violente e avvengono fuori tempo, non dev’essere stato un incentivo per l’agricoltura, soprattutto se non si possiede una buona organizzazione.
Le popolazioni del periodo Ubaid avevano maturato da tempo quelle basilari conoscenze, poiché praticavano l’irrigazione e proteggevano i terreni dalle inondazioni costruendo basamenti. Con l’arrivo dei Caldei quelle grandiose opere furono progressivamente abbandonate e nessuno assicurò la necessaria manutenzione della rete di canalizzazione, che infine andò in rovina. Il risultato fu che la zona divenne paludosa e inospitale, convincendo quel popolo a emigrare più a nord, verso Haran.
Furono i Sumeri a rimettere le cose a posto e, per incentivare le attività commerciali si spinsero fino in Egitto: quel passaggio lasciò precise influenze nell’architettura e nella religione. Non per niente le piramidi egiziane sono un’evoluzione delle ziggurat e il mito di Osiride si rifà a quello del dio sumero Dumuzi, che con Inanna (Iside per gli Egizi) veniva celebrato dai sovrani sumeri con un solenne rituale per favorire la fertilità e il rinnovamento della vita umana, animale e vegetale. Torna ancora una reminiscenza del primordiale culto della Dea Madre, che qui sopravvive in altra forma. La coppia nuziale Dumuzi e Inanna veniva sostituita dai regnanti sumeri che all’interno del palazzo reale, in una stanza appositamente destinata, si accoppiavano nuovamente in vece delle divinità: la rinnovata unione degli dèi aveva anche una forte valenza come sacra ritualità riferita alla prostituzione e da quel che si sa l’arte del meretricio ha avuto origine proprio qui, cioè in tutto il bacino del Vicino Oriente, dove veniva largamente praticata.
I Sumeri usavano associare il gruppo di stelle che oggi chiamiamo Orione con il mitico Gilgamesh, l’eroe divinizzato della dinastia di Uruk, regnante sulla città/stato a metà del III millennio a.C.; fu lui che fece realizzare la cinta difensiva di Uruk, come recita il noto poema “L’Epopea di Gilgamesh” e un’epigrafe successiva di re Anam. L’accostamento di Gilgamesh con Orione non pare casuale: dalle tavolette rinvenute nel tempio di Nabu, a Ninive, e da quelle della collezione di Assurbanipal, apprendiamo che l’eroe, col fido Enkidu, andò vanamente in cerca dell’immortalità, e sappiamo bene che i regnanti egizi credevano di risuscitare in questa costellazione, riconoscendola dimora di Osiride.
La cultura che oggi conosciamo di più è quella dei Babilonesi e degli Assiri: grazie ai marinai fenici quel che si stava realizzando in Mesopotamia non tardò a diffondersi per tutto il Mediterraneo e come già successo con gli Egizi, anche i Greci ne subirono l’influenza nella cultura e nell’arte.
Nonostante gli ingenti danni provocati all’agricoltura, dobbiamo pur riconoscere merito anche ai Caldei perché alcune tavolette d’argilla ci inducono a pensare che l’astronomia e le altre scienze sviluppate dai babilonesi fossero prerogativa di questa casta sacerdotale, una stirpe di lingua aramaica che forse proveniente dall’Arabia e si stanziò nel meridione della Mesopotamia nel XIV secolo a.C.
Il termine Caldei significa “conoscitori delle stelle” e anche per questo a quei tempi furono tacciati di essere ciarlatani perché, oltre ad essere scribi, come sacerdoti si dedicavano all’astrologia e alla divinazione. Furono senz’altro dei precursori e si dibatte tuttora sul fatto se abbiano talora superato il sapere degli astronomi greci. L’unico rimprovero mosso ai Caldei è che non giunsero mai a comprendere la geometria e la trigonometria.
Alla fine del VII secolo a.C., dopo l’assedio di Nivine e la cacciata degli Assiri, iniziò un periodo di trascrizioni più preciso, che fa pensare a un’ottimizzazione delle osservazioni, sistematiche e accurate, che scaturirono in un miglior computo del tempo. È attestata in quel frangente la prima suddivisione del cerchio in trecentosessanta gradi, determinata dalla corretta osservazione del moto del Sole. Anche i dati riferiti alle eclissi lunari sono più precisi ed è proprio dei Caldei la prima registrazione del fenomeno il 19 marzo 721 a.C., considerata tuttora affidabile.
A Babilonia, vent’anni prima, era salito al potere Nabopolassar, la cui dinastia neo-babilonese si estinse cent’anni dopo con la conquista della città da parte dei Persiani di Ciro il Grande. Già con l’avvento di Nabonasser nel 747 a.C., la scienza astronomica aveva dato segno di profondi cambiamenti. Tolomeo riconobbe in seguito che si attestano a questo periodo le prime osservazioni valide.
Da una pietra chiamata Kudurru sappiamo che i Babilonesi vedevano la volta celeste divisa in tre porzioni: la strada di Enlil (parte settentrionale), la strada di Anu (fascia dello zodiaco) e la strada di Ea (parte meridionale). La prima testimonianza del cielo babilonese è contenuta nelle “Tre stelle ognuno” o sistema a trentasei stelle, trascritto su alcune tavolette databili alla fine del II millennio. Il calendario, con chiare valenze agricole, era diviso in dodici o tredici mesi e ognuno era contraddistinto da tre stelle, che potevano essere anche pianeti. L’anno iniziava con la prima luna nuova vicina all’equinozio di primavera.
L’astronomo Agostino Galegati è dell’avviso che nei dati riportati in queste tavolette ci siano “…anche molti errori forse prodotti da errate trascrizioni da parte dei copisti o perché i dati erano riportati per scopi non astronomici.”
Un altro documento notevole per la comprensione della sapienza astronomica raggiunta nella Terra fra due fiumi è la coppia di tavolette Mulapin, datate al 700 a.C., che pur contenendo le stesse stelle del precedente documento, è sicuramente più completo perché basato su accurate osservazioni. È qui che troviamo indicazione dei punti cardinali in cui si trovano il Sole e le congiunzioni dei pianeti con esso. Per la prima volta è riportata una catalogazione delle costellazioni con precisi riferimenti anche a proposito dell’associazione con le divinità.
L’introduzione dello zodiaco con dodici case, quello ancor oggi in uso, risale al 750 a.C. Dopo le conquiste di Alessandro Magno, nel IV secolo a.C., questo sapere ancestrale divenne l’astrologia, separandosi definitivamente dall’astronomia.
Grazie alle testimonianze di Strabone e Plinio il vecchio, oggi sappiamo che grande astronomo e matematico caldeo dovesse essere Kidinnu, vissuto nel IV secolo a.C. e capo della scuola astronomica accadica di Sippar. Fu lui infatti a sviluppare un personale metodo per calcolare, con notevole approssimazione, il differente movimento del Sole, della Luna e di altri pianeti. Quel metodo, denominato ‘Sistema B’, fu poi utilizzato con successo anche dagli astronomi caldei.
Per rendersi conto dei risultati eccezionali ottenuti da Kidinnu, sarà sufficiente ricordare che calcolò con precisione le eclissi lunari, determinò la lunghezza dell’anno in trecentosessantacinque giorni e sei ore e il moto lunare nel mese sinodico di ventinove giorni, dodici ore, quarantaquattro minuti e cinque secondi (con un errore di circa un secondo): il valore classico di 29.53059414… è attribuito a lui e fu poi confermato da Ipparco, utilizzato da Tolomeo e da altri astronomi dell’antichità.
È probabile che sia stato Kidinnu a introdurre nel calendario babilonese il ciclo Metonico di diciannove anni (ogni anno contava dodici mesi lunari, con altri sette mesi che erano aggiunti nei diciannove anni successivi per controbilanciare la differenza tra l’anno solare e quello lunare). D’altronde gli astronomi caldei scoprirono anche i cambiamenti del diametro apparente della Luna e i valori oggi riconosciuti sono estremamente simili a quelli dei babilonesi. Non è ancora stato scoperto se ai caldei fossero note anche le variazioni del diametro solare, che erano certamente conosciute da Sosigene di Alessandria.
Prima di morire Kidinnu riuscì a comprendere che la diversa velocità del Sole sull’eclittica provocava la differenza delle stagioni, che l’anno sidereo era più lungo che quello tropico e si avvicinò alla comprensione del particolare meccanismo della precessione degli equinozi.
Ipparco e Tolomeo furono sicuramente influenzati dagli studi di Kidinnu, che diedero spunto a future scoperte dei due astronomi greci. L’astronomo caldeo ottenne gli impressionanti risultati senza l’uso del telescopio e soprattutto senza l’ausilio della moderna strumentazione degli osservatori, ma poteva avvalersi di un impareggiabile archivio, che probabilmente conteneva il resoconto di osservazioni astronomiche effettuate in un lunghissimo periodo.
Non deve quindi destare stupore che prima del metodo inventato da Kidinnu, nelle scuole astronomiche della Mesopotamia era in uso un sistema di calcolo ben più antico, i cui labili indizi videro la luce solamente nella seconda metà del XIX secolo, grazie ai notevoli progressi nella decifrazione del cuneiforme, che permise la comprensione di fondamentali documenti astronomici. Lo ricorda l’astronomo Giovanni Virginio Schiaparelli citando gli studi di Franz Xaver Kugler e Johann Nepomuk Strassmaier, che per primi individuarono elementi che riconducevano a un altro sistema di calcolo più antico che, fondato su periodi meno esatti, si avvaleva di procedimenti differenti per computare il tempo. A differenza del metodo di Kidinnu, che considerava l’inizio della giornata a mezzanotte, questo metodo ancestrale poneva il principio del giorno al tramontare del Sole e invece di utilizzare come unità di misura il cubito e il pollice si procedeva con gradi, mezzi gradi e quarti di grado.
Secondo Schiapparelli era un “bizzarro modo” per affrontare “il problema dell’anomalia solare” e Kugler lo definì giustamente “un capolavoro dell’aritmetica babilonese”.
L’astronomia babilonese ci stupisce anche per un altro particolare: lo studio dei fenomeni celesti teso alla scoperta di tutto ciò che è periodico, allo scopo di ridurlo a espressioni numeriche per prevedere il rinnovamento. Se determinare il calcolo della velocità apparente di Sole e Luna poteva essere relativamente semplice, ben diverso era farlo per gli altri cinque pianeti noti, anche solo a causa del loro corso irregolare lungo lo zodiaco: il moto infatti dopo essere stato retrogrado, si arrestava e quindi riprendeva normalmente.
Il moto apparente dei pianeti pareva dipendere da due fattori periodici che si combinavano fra loro, la rivoluzione siderale (il movimento attorno allo zodiaco) e quella sinodica (la configurazione rispetto al Sole che produce congiunzioni e opposizioni). Le osservazioni prolungate degli astronomi della Mesopotamia avevano permesso di comprendere che il ritorno di questi pianeti alla stessa stella era imputabile ai due fenomeni valutati assieme, tanto che l’intervallo era dovuto alla somma di un determinato numero di anni che s’intersecava con altrettante diverse rivoluzioni sinodiche.
Le iscrizioni contenute nelle tavolette cuneiformi, pur nella loro frammentarietà, hanno permesso di conoscere metodi e calcoli utilizzati dalle scuole astronomiche della Mesopotamia riguardo alcuni pianeti del nostro sistema solare. Purtroppo di Marte, Venere e Saturno si conosce ancora ben poco, mentre per Mercurio e soprattutto Giove abbiamo una discreta documentazione. Venere fu osservato ritornare nella stessa posizione, rispetto al Sole e alle stelle, ogni otto anni e cinque rivoluzioni sinodiche; Giove tornava ogni dodici anni e undici rivoluzioni sinodiche, Mercurio ogni quarantasei e cento quarantacinque, Saturno ogni cinquantanove e cinquantasette, Marte ogni trentadue e cinque.
Gli astronomi babilonesi chiaramente osservarono molti cicli consecutivamente e fecero correzioni per colmare le lacune e raggiungere la sperata precisione. Infatti la somma dei giorni dei cicli della rivoluzione sinodica e la somma di giorni dei cicli della siderale potevano divergere e se inizialmente trascurabili, diventavano importanti col trascorrere del tempo. Quello che avevano scoperto gli astronomi erano le effemeridi perpetue dei pianeti che permettevano di determinare in anticipo, per ogni ciclo, congiunzioni e opposizioni con il Sole, congiunzioni con le stelle principali, ingresso dei pianeti nei segni dello zodiaco, stazioni e retrogradazioni, levate e tramonti eliaci. Gli astrologi dell’antichità, sulla scorta di questi dati certi, potevano così avventurarsi nella lettura del futuro, immaginiamo a beneficio dei regnanti. O all’origine di questi calcoli c’era dell’altro?
Nonostante le molte evidenze, fino al XIX secolo, cioè nemmeno duecento anni fa, i filologi che studiavano le tavolette di argilla con caratteri in cuneiforme rinvenute in Mesopotamia, negavano l’esistenza di un popolo riconducibile ai Sumeri. D’altronde nessuno storico del passato ne aveva mai parlato e quindi non potevano esistere. Il fatto di aver decifrato non senza fatica la scrittura cuneiforme degli Assiri e dei Babilonesi, di per sé costituiva per quegli studiosi un fatto eccezionale e un sicuro punto d’arrivo. Eppure gli indizi c’erano e prima o poi si doveva prenderli in seria considerazione.
In una di queste tavolette, tra le migliaia rinvenute, un re babilonese, un certo Assurbanipal, citava gli “oscuri testi del sumerico” e la parola “Sumer” faceva capolino per la prima volta sugli appunti degli studiosi.
Una delle prime giustificazioni al riguardo fu di considerare il sumerico una scrittura segreta inventata dagli Assiri e dai Babilonesi. L’oscuro periodo del negazionismo sembra davvero finito.
E dopo la parentesi devastante del conflitto, si torna di nuovo a scavare in Iraq e la Mesopotamia promette di rivelare altri segreti. La missione archeologica dell’Università La Sapienza, appena rientrata dalla seconda campagna di scavo nel sito di Abu Tbeirah, vicino Nassiriya, grazie ai rilevamenti satellitari ha scovato un’altura artificiale che si estende per quasi quarantatré ettari. Lì, sotto cumuli di terra, si trova una città finora sconosciuta, attraversata da canali e munita di porti fluviali.