In un libro uscito nel 2014 (L’ultima specie. Cambi di clima, diffusioni e bugie dell’Homo sapiens), mi interrogavo sulle continue contraddizioni della nostra specie, fin dal suo esordio su questo pianeta. In fase di documentazione, oltre agli studi di Desmond Morris e Telmo Pievani, mi rifacevo anche alle considerazioni di Yuval Noah Harari, che vi propongo qui in un breve estratto. Buona giornata!
Lo storico israeliano Yuval Noah Harari, autore di From Animals into Gods: A Brief History of Humankind (edizione italiana Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità, Bombiani, 2014), interrogandosi sugli avvenimenti che hanno contrassegnato il genere umano in così tanti millenni, ha portato in luce le immancabili incongruenze disseminate sul percorso che hanno condotto all’attuale civiltà, concludendo che buona parte del nostro passato sia una pura invenzione della fervida immaginazione di alcuni nostri antenati, bravi a raccontare storie e convincere gli altri che fossero vere.
È così che l’Homo Sapiens si è convinto dell’esistenza di cose che si trovano solo nella sua immaginazione: divinità, diritto divino dei regnanti, leggi, sovranità dei popoli, nazioni, società commerciali e soldi.
La capacità di raccontare queste incredibili e complesse storie e indurre una moltitudine a crederci, è in fondo l’immenso potere che detiene la nostra specie poiché, come scrive l’autore, “fa sì che milioni di estranei cooperino e agiscano in direzione di obiettivi comuni”. E questo è quel che ci differenzia dalle altre specie terrestri.
La capacità di creare una realtà immaginaria, secondo Harari, è una rivoluzione cognitiva che proviene dalle parole (ma anche la scrittura negli ultimi cinque millenni, secondo me, può aver dato un contributo decisivo) che, oltre a essere il mezzo principe della trasmissione delle informazioni necessarie per chi vive in gruppo, inevitabilmente finiscono per veicolare anche altre manifestazioni provenienti dai recessi più oscuri della nostra mente.
Per ottenere un consenso sempre più unanime, la nostra esistenza pare costellata di personaggi in grado di adattare queste storie ogni qualvolta ce ne fosse stato bisogno (pensiamo ai racconti mitologici), come se in fondo andassero incontro al volere della moltitudine. Ecco che le storie anche improbabili diventano col tempo accettabili in ogni dove con l’aggiunta di particolari differenti che, a quanto pare, sono graditi e sufficienti per convincere tutti della bontà dei racconti.
L’autore s’interroga anche sul passaggio fondamentale da raccoglitori – cacciatori ad agricoltori (quindi l’ingresso nel Neolitico), convinto che da quest’altra rivoluzione le capacità cognitive siano rapidamente scemate poiché i nostri avi, inseriti in gruppi sempre più numerosi, si sono specializzati in mansioni semplici e ripetitive, delegando il resto ad altri ‘specialisti’. Una sconfitta, insomma, se si pensa che proprio allora l’uomo stanziale cominciò a interrogarsi sul futuro (“la preoccupazione si radicava non soltanto nei cicli stagionali della produzione, ma anche nella fondamentale incertezza del sistema agricolo”), a differenza del raccoglitore – cacciatore la cui unica preoccupazione era procurarsi il cibo e un riparo per la notte.
Il genere umano potrebbe essere responsabile dell’estinzione della megafauna, nonostante ancor oggi si preferisca attribuire questo e altri disastri ecologici alle bizzarrie climatiche: un’altra invenzione della nostra mente per scagionarci dalle responsabilità. E qui Harari non fa distinzione tra raccoglitori – cacciatori o agricoltori, tutti hanno fatto la loro parte per distruggere, forse anche inconsapevolmente, l’ambiente circostante.
La rivoluzione industriale, in tal senso, andrebbe interpretato come l’ultimo atto della tragedia.
Harari non è tenero nemmeno nei confronti dei credi religiosi, che si sono sempre adattati così bene, alla bisogna, modellando alle esigenze i propri pantheon per accontentare tutti, salvo poi trasformarsi da politeiste a monoteiste.
La storia del genere umano, soprattutto dal Medioevo in poi, è stata indirizzata dalle spinte espansionistiche dei regnanti (imperi e ordini religioni) alla cerca d’ingenti profitti economici (il capitalismo, la nascita delle banche e il conio delle monete come armi per detenere il potere), che hanno condizionato non solo le vite di molte popolazioni ‘indigene’ ma anche il cammino della scienza e del progresso, i cui rappresentanti sono stati spesso ingannati, manipolati o costretti a scendere a patti con i detentori del potere. Un po’ quello che succede ancor oggi, in un contesto dominato dalle multinazionali.
L’uomo è diventato dio, ma va ancora in cerca di verità elementari. La sua immaginazione è ben descritta da Harari: “…benché l’ordine immaginario esista solo nelle nostre menti, esso può essere intessuto nella realtà materiale, e persino scolpito nella pietra”.
Stiamo ancora cercando la strada giusta da percorrere perché non sappiamo dove stiamo andando e Harari non si discosta dal pensiero di altri studiosi: “…nonostante le cose sorprendenti che gli umani sono capaci di fare, restiamo incerti sui nostri obiettivi e sembriamo scontenti come sempre. Siamo passati dalle canoe alle galee, dalle navi a vapore agli shuttle spaziali, ma nessuno sa dove stiamo andando… Può esserci qualcosa di più pericoloso di una massa di déi insoddisfatti e irresponsabili che non sanno neppure ciò che vogliono?”.
Già, non sappiamo dove andare e cosa vogliamo ma, soprattutto, continuiamo a raccontare bugie. A differenza delle specie del mondo animale, che utilizzano false informazioni solo per catturare le prede o scampare ai predatori, noi siamo gli unici a ingannarci a vicenda. Abbiamo imparato a mentire a noi stessi, nel vero senso della parola, quando abbiamo iniziato a utilizzare il linguaggio. Ecco perché, di là dei cambiamenti climatici che ci attendono e dell’era glaciale che verrà, l’estinzione della nostra specie è proprio dietro l’angolo. Speriamo che le nostre bugie non la rendano un processo irreversibile.