La pila di Bagdad

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Uno strano vaso d’argilla

Di primo acchito potrebbe apparire oltremodo semplice scrivere qualcosa attorno alla cosiddetta pila di Bagdad, uno dei reperti fuori posto più noti al grande pubblico. Eppure, come vedremo, le circostanze del ritrovamento ci inducono a ritenere che le cronache che ne riferiscono siano perlomeno confuse.

Partendo dal presupposto che si deve senz’altro a Wilhelm Konig il merito di aver fatto conoscere la piccola anfora, che tanto farà parlare di sé, poco prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale, non è ben chiaro chi fosse questo signore: un archeologo (dilettante o meno), il direttore del Museo Nazionale di Bagdad oppure un ingegnere. Nella prima ipotesi sarebbe stato a capo di una spedizione che avrebbe rinvenuto l’oggetto in questione, nel 1930 o giù di lì, in quel di Khuyut Rabbou’a (una località vicino Bagdad, in Iraq); ma, ferma restando la località, c’è chi sostiene che il merito sia da attribuire ad alcuni operai (intenti al lavoro per la costruzione di una ferrovia) che nel 1936 rinvennero una tomba e al suo interno anche questo vaso d’argilla con un cilindro di rame e un tondino di ferro: lo strano reperto fu poi trasportato al museo ed etichettato, come capita spesso, “oggetto di culto”, prima che l’asserito direttore se ne avvedesse. Infine, quella che pare essere la versione più credibile, cioè l’ingegnere incaricato di sistemare la rete fognaria del museo che casualmente rinviene nello scantinato una cassa contenente una serie di oggetti privi di catalogazione, tra cui anche la pila di Bagdad.

Tralasciando il fatto che anche sulla nazionalità di Konig si potrebbe investigare (tedesco, austriaco o australiano?), quel che ci colpisce maggiormente è che per molti degli OOPArt il destino gioca questi brutti scherzi fin dall’inizio, come se qualcuno si fosse divertito a mischiare le carte in tavola, così, giusto per rendere ancora più difficoltosa l’analisi di reperti già di per sé controversi per natura.

Fra l’altro nel 2003 il reperto è scomparso a seguito del saccheggio del Museo Archeologico di Bagdad. Il piccolo manufatto, dalle scarne informazioni in nostro possesso, sembrerebbe provenire da sedimenti risalenti al III secolo d.C., in un contesto storico in cui i Parti, nel 226, dovettero soccombere alla dinastia dei Sassanidi. Pur nell’impossibilità di datare con precisione i componenti del misterioso oggetto, la fattezza del vaso è riconducibile all’arte sassanide e quindi non è fuori luogo far risalire il reperto a questo periodo.

Esperimenti riusciti

Non ci volle molto a comprendere che poteva trattarsi di una rudimentale pila: il vaso di terracotta conteneva infatti un cilindro costituito da una lamina di rame saldata con una lega di stagno-piombo e provvisto di un disco di rame fissato sul fondo, isolato con del bitume mentre la parte superiore era chiusa da una sorta di tappo da cui sporgeva un tondino di ferro: quest’ultimo elemento sarebbe stato l’elettrodo. Non è stato possibile determinare che tipo di elettrolito venisse usato in origine, ma di qualunque sostanza si trattasse presumibilmente andava a occupare lo spazio compreso tra il tondino di ferro e le pareti del cilindro di rame.

Partendo dalle conclusioni a cui era giunto Konig, cioè che il manufatto potesse in qualche modo far parte di un dispositivo in grado di placcare oggetti metallici ricoprendoli di un sottile strato d’oro, negli anni a venire molti si sono cimentati nell’arcano. L’ingegnere Willard F.M. Gray, nel secolo scorso, fu il primo a costruire un duplicato e col solfato di rame come elettrolito si avvide della produzione di corrente elettrica, seppur a bassissimo voltaggio.

Trent’anni fa l’egittologo Arne Eggebrecht, con l’aggiunta di succo d’uva in una riproduzione simile all’originale, produsse 0,5 volt di elettricità, sufficiente per placcare una statuetta d’argento con una soluzione di cianuro d’oro. Ancor meglio fece qualche anno fa il nostro Roberto Volterri, stavolta col succo del limone. In buona sostanza tutte le sperimentazioni eseguite su copie della lampada di Bagdad hanno dimostrato che un insieme di questi manufatti avrebbe potuto generale corrente elettrica sufficiente per una galvanostegia.

Sono state sviscerate altre teorie, come ad esempio l’utilizzo di questi manufatti in cerimonie religiose (per generare negli accoliti la sensazione della presenza divina) oppure in campo medico con blandi effetti analgesici. Assai più credibile che l’uso a cui erano destinate le “pile” possa obiettivamente essere la placcatura dei metalli. E qui sorge il dilemma perché la scienza ci insegna che questa tecnica inizia a fare i primi passi solamente a partire dall’inizio del XIX secolo, con la genialità di Luigi Valentino Brugnatelli, un farmacista con la passione per la chimica, grande amico dell’inventore della pila, Alessandro Volta. Almeno 1600 anni di buio che vorranno pur dire qualcosa. Come se questi antenati, in fondo, maneggiassero qualcosa che non riuscivano a comprendere appieno, perché da allora, ammesso che queste conoscenze ci fossero, pare siano andate progressivamente perdute. Anche questo fa parte della storia di altri oggetti fuori posto, o fuori tempo.

Tasselli mancanti

Per la pila di Bagdad sarà meglio non fare tanti voli di fantasia: affermare, sulla scorta di questo solo manufatto (ripetiamo, l’unico finora rinvenuto integro), che l’energia elettrica era ben conosciuta nell’antichità sarebbe infatti un grave errore. Per scardinare i dogmi tuttora imperanti, ne converrete, occorrerà ben altro. Anche perché, obiettivamente, nella ricostruzione di questo rinvenimento, ve lo abbiamo raccontato sulla scorta delle scarne e contraddittorie informazioni disponibili, c’è più di un tassello che andrebbe aggiunto o rivisto, compresa l’enigmatica dichiarazione che lo stesso Konig avrebbe rilasciato riguardo possibili passaggi di mano del reperto prima che questo arrivasse a lui. Ma al di là di questa dovuta considerazione il misterioso vaso d’argilla, che a questo punto tanto misterioso non è più, rimane pur sempre un indizio che ci tornerà utile quando sarà il momento, quando avremo qualcos’altro che possa avvalorare quel che tutti noi, in fondo, sospettiamo.

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