El Manati era un sacrario olmeco, in un laghetto formato da sorgenti sotterranee, in cui furono deposti, in almeno tre distinte occasioni, oggetti sacri in contesti di sepoltura probabilmente rituali.
Qui furono infatti rinvenuti resti umani anche disarticolati, alcuni forse appartenenti a neonati e tuttora considerati come parte di un’offerta.
In questa località della Mesoamerica, all’incirca nel 1600 a.C., una datazione desunta dall’analisi dei resti archeologici rinvenuti, si sviluppò la cultura madre degli Olmechi.
Al pari del sito di Juxtlahuaca, un sistema di grotte del Guerrero in cui sono state rinvenute le più antiche pitture rupestri olmeche, attestate al 1200 a.C., El Manati è un passaggio obbligato per comprendere la misteriosa cultura madre.
Proprio dalla datazione sull’oggettistica rinvenuta dal 1988 tra il fango di El Manati, a pochi chilometri da San Lorenzo Tenochtitlan, si desume la data del 1600-1700 a.C., la più remota finora attestata per la presenza olmeca nella Mesoamerica.
I tre depositi, l’ultimo corrispondente al 1200 a.C. circa, contenevano asce di pietra, perle di giadeite perforate, dodici palle di gomma (di cui cinque sempre associate a bastoni/scettri cerimoniali di legno), una figurina con deformazione craniale, busti e sculture umane di legno, scettri serpentiformi di legno, lame e figurine d’ossidiana, coltelli e ossa d’animale.
Non mancavano frammenti di resti umani (un molare, parte di un cranio e numerose ossa, per lo più appartenenti a neonati o bambini), che secondo il parere della maggioranza degli archeologi testimonierebbero l’usanza di sacrifici associati con il culto delle acque e della fertilità, senza tralasciare quello pure importante della collina: il Cerro Manati si erge infatti alle spalle del sito, in maniera del tutto analoga agli insediamenti di Chalcatzingo, Las Bocas e Teopantecuanitlan.
El Manati, secondo l’archeologa Caterina Magni, condivide «alcune caratteristiche con La Venta, come la pratica di distruggere le opere con scanalature profonde, la presenza di strati di sabbia colorata e la copertura eseguita principalmente con assi».
Tre busti in legno intagliato, perfettamente conservati, assieme alle ceramiche rinvenute rivelano invece lo stile di almeno due fasi di San Lorenzo: furono le ultime offerte di un rituale (la presenza costante di ocra rossa sulla bocca di almeno altri dieci busti può simboleggiare il soffio vitale del defunto) che andava scomparendo. Due dei busti erano ornati da insoliti ciondoli, uno a forma di T rovesciata realizzato a base di pece, l’altro munito di un cordone realizzato anch’esso con il catrame.
La stessa sostanza è stata utilizzata per alcuni piccoli pendenti inseriti nei lobi delle orecchie di una statuetta e per i manici di tre coltelli di pietra, rinvenuti anch’essi in questo spazio sacro, una circostanza che permette di introdurre una notazione.
El Manati, assieme a San Lorenzo, detiene anche un singolare primato, poiché qui è stato rinvenuto il più antico bitume della Mesoamerica, mescolato con altre sostanze.
Il bitume naturale è una miscela di idrocarburi, residuo delle sostanze volatili dei petroli e si forma per ossidazione ed evaporazione; si presenta in natura sotto forma di depositi affioranti in superficie e alimentati da vene sotterranee.
Gli Olmechi ne facevano lo stesso uso di Sumeri, Egizi e Indiani, sfruttandone cioè le proprietà d’impermeabilità, per le imbarcazioni e per isolare, congiuntamente alla gomma, la rete di misteriosi canali che si ritrovano a San Lorenzo Tenochtitlan.
Quel bitume, abbondante nella regione del Golfo del Messico, doveva costituire già allora un’importante risorsa economica, tanto da rappresentare materia di scambio per rapporti commerciali anche di fuori della zona nucleare.
È questo un aspetto tutto ancora da esplorare per far luce sulla civiltà madre e sulle possibili interazioni con l’altra gente della Mesoamerica.
Carl Wendt e Ann Cyphers del Dipartimento di Antropologia dell’Università della California, in uno studio pubblicato nel 2008 si dicono convinti che gli Olmechi fossero impegnati in un’attività organizzata e specializzata di trasformazione del bitume, con diverse fasi di produzione, per la realizzazione di numerosi manufatti.
Wendt scrive che «nell’area olmeca, i depositi di catrame sono concentrati solo nelle pianure orientali, tra cui i siti di San Lorenzo, Veracruz e La Venta. In questi luoghi il catrame era raccolto direttamente dai depositi, dall’acqua di superficie di fiumi e stagni, o come noduli portati dal mare alle spiagge… l’élite olmeca lo utilizzò [anche] nella realizzazione degli acquedotti sotterranei di San Lorenzo e La Venta… per sigillare gli acquedotti di basalto».
Anche l’antropologo David Grove sostiene che una ricerca approfondita sull’origine e la diffusione del bitume nella Mesoamerica, potrebbe rivelare la vasta rete commerciale che univa la Mesoamerica ad altre zone dell’America Settentrionale, allo stesso modo in cui una simile analisi ha già determinato importanti informazioni circa le reti commerciali tra la Mesopotamia e il Vicino Oriente.
Finora solamente l’antropologo Carl Wendt della Pennsylvania State University ha intrapreso una ricerca del genere, i cui risultati sono stati pubblicati nel 2006 sul Journal of Archaeological Science.
Wendt, che investiga principalmente lo sviluppo e l’organizzazione della cultura olmeca, ha verificato la corrispondenza tra la componente chimica del bitume rinvenuto sulla costa del Golfo del Messico con quello presente in una decina di siti archeologici, suggerendo quindi una funzionale rete di rifornimento.
Se il commercio di manufatti d’ossidiana può avvalorare una rete di scambio per un mero interesse artistico riservato a classi dominanti, quello del bitume testimonia l’interesse per un materiale il cui impiego è invece destinato anche alle masse.
Come nel caso dei Chumash, una popolazione delle Channel Islands della California meridionale, che raccoglievano il bitume dagli affioramenti naturali per utilizzarlo come isolante nelle imbarcazioni, ma anche come collante per immobilizzare ossa rotte e come gomma da masticare.
Il rinvenimento nel sito sacro di El Manati di femori e teschi di neonati o feti, spesso indicati come sacrifici umani, potrebbe invece rappresentare una specie di sepoltura di neonati morti anche in età prenatale.
E anche i numerosi altari monolitici rinvenuti nei siti olmechi, raffiguranti sciamani che escono da cavità sotterranee recando in braccio neonati, assumono a questo punto ben altro significato; compresa la corda che i sacerdoti tengono sovente in mano, che potrebbe essere una stilizzazione della corda dorsale flessibile dello stadio embrionale.
Poiché alcuni dei feti riprodotti presentano anche evidenti deformità, non appare fuori luogo suggerire che l’interesse degli Olmechi per la vita prenatale possa essere cominciato per comprendere la natura di tali problemi, pur inconsapevoli che l’origine andava ricercata nel contatto con le sostanze cancerogene sprigionate dal bitume.
Potrebbe essere questa un’altra strada da seguire per far luce sul mistero della loro scomparsa, cercando altre possibili connessioni con i Chumash, cugini degli Hohokam.
Hai letto un estratto dal libro “Quelli che vennero prima” (Cerchio della Luna editore, 2015).